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 2018  settembre 10 Lunedì calendario

Dick Williams. Da talento sprecato a campione del tennis Grazie al Titanic

Sulla scialuppa di salvataggio Collapsible A rimasero alcuni oggetti di poco conto, le cose che i naufraghi erano riusciti a salvare nella concitazione, quelle che avevano nelle tasche, gli abiti che indossavano. Nell’elenco delle cose smarrite e poi ritrovate c’erano anche un pellicciotto ghiacciato e rigido come se un fantasma lo stesse ancora indossando e un paio di scarpe di buona fattura. Entrambi appartenevano a Richard Norris Williams, il tennista che sopravvisse al Titanic per sconfiggere le sue ossessioni. Dick Williams era un ragazzo fortunato, nato dalla parte giusta della città, figlio di un grande avvocato americano con il pallino del tennis. Una passione coltivata con dedizione in famiglia, il padre vera eminenza grigia della Federazione Internazionale e il figlio sempre in campo a percuotere la palla con una rabbia misteriosa e funesta, come se ogni colpo fosse l’ultimo e la pallina un nemico. A 21 anni Dick era già considerato un talento sprecato, ingovernabile e umorale, capace di partite sublimi e finali sconsiderati. Oltre alla furia agonistica del picchiatore infatti Richard aveva un problema molto più profondo e angoscioso, era incapace di chiudere le partite con razionalità e giudizio, non riusciva a giocare punti normali nel finale. Come avvinto e soffocato dalla vertigine dell’ordine, Dick Williams cercava sempre di piazzare la palla decisiva all’incrocio delle linee, una dannazione geometrica che gli era costata molte vittorie e la fama del giocatore lunatico e irascibile. Un talento sprecato, appunto, l’archetipo del capriccioso figlio di papà.Charles Duane Williams viveva quasi tutto l’anno in Svizzera, era uomo di mondo e amava essere nel centro esatto degli eventi, delle grandi occasioni pubbliche. Quando apprese del primo viaggio del Titanic, portento della tecnica e della scienza, volle regalarsi e regalare al figlio Richard un viaggio in prima classe. Il Titanic regalava emozioni modulate dal portafoglio, ma chi in un modo e chi nell’altro, chi sul ponte levigato e luccicante della Prima Classe e chi nelle cabine scure e già umide della Terza, tutti volevano celebrare quella grande conquista dell’umanità con la loro presenza. Certo, ci fu chi prese quella nave per necessità, un mezzo come un altro per arrivare a New York, ma la sensazione diffusa era quella della festa itinerante.Quel che accade la notte del 14 aprile 1912 è passato alla storia come una delle più lunghe, grottesche e inesorabili catene di errori umani, omissioni, facilonerie e difetti di progettazione. Quasi l’iceberg fosse stato evocato da un mantra funesto, da una litania tonta recitata da marinai, comandanti, progettisti e armatori. La nave che non poteva affondare affondò. Che sul ponte l’orchestra abbia suonato fino alla fine o meno importa poco. Quel che rimane è uno splendido inno religioso, le note calme e struggenti nel mezzo di una tragedia immane, gli archi che liberano la melodia di Nearer my God to thee mentre la grande nave si contorce, si inabissa, riemerge e si spezza.Su quel ponte c’erano Richard e suo padre. Il ragazzo c’era arrivato dopo aver tentato disperatamente di salvare altre vite, di aprire porte chiuse, di disobbedire agli ordini del personale di bordo. Il padre era rimasto immobile, più serafico che non pietrificato. La leggenda, una delle tante leggende su quelle ore infernali, vuole che Charles Duane Williams abbia chiesto a uno steward di riempire di whiskey la sua fiaschetta d’argento, come un galantuomo che sta per andare a coricarsi. L’onda che spazzò padre e figlio via dal ponte e li fece precipitare nell’acqua ghiacciata fu violenta e improvvisa. Si ritrovarono a galleggiare a pochi metri di distanza, consapevoli che l’ipotermia sarebbe passata a prenderli in pochi minuti. Si misero a cercare oggetti cui aggrapparsi, botti e assi di legno, salvagenti, tavoli, tutto ciò che la stiva della grande nave morente liberava andando a fondo. Poi d’improvviso uno dei fumaioli, i giganteschi fumaioli del Titanic si staccò e crollò su Charles Duane e quelli intorno a lui.La montagna d’acciaio che gli aveva appena ucciso il padre fu anche il motore primo della salvezza di Richard, che arrivò con poche bracciate fino alla scialuppa Collapsible A. Ci volle qualche minuto per riuscire a issarlo a bordo e, anche quando fu in salvo, le sue gambe rimasero a mollo in quel catino di acqua fredda e cattiva come mille coltelli. Di lì a poco un secondo trasbordo portò Richard sulla nave Carpathia e fu allora che gli dissero che avrebbe perso le gambe. Dick era uno che non amava le imposizioni, non era abituato a subirne nemmeno dal destino. Rispose che non ci credeva, che non le avrebbe perse e iniziò a camminare furiosamente sul ponte. Non le perse.Appena sbarcato, un medico sportivo volle visitare il giovane Williams e gli annunciò la fine della sua carriera tennistica. Di nuovo, Richard disse che non sarebbe andata così, che avrebbe ripreso a giocare. Riprese. Non solo, perché questa non è la storia di un commuovente ritorno in campo e nemmeno una celebrazione melensa della forza di volontà. Richard Norris Williams tornò a giocare per diventare il più grande tennista dei suoi tempi, il più forte al mondo. Ci arrivò vicino. Studiò a Harvard e con la maglia di quella prestigiosa università vinse due titoli intercollegiali nel singolo (1913 e 1915) e due nel doppio. Nel 1914 vinse il suo primo US Open battendo Maurice McLoughlin in finale, nel 1916 riuscì a ripetersi contro Bill Johnston.Fu longevo e versatile, alle Olimpiadi di Parigi del 1924 conquistò la medaglia d’oro nel doppio misto nonostante i 33 anni e una caviglia malandata. La sua compagna in quell’occasione fu Hazel Hotchkiss Whigtman. Grazie alla sua determinazione, alla forza e al carisma, fu capitano della squadra americana che nel 1925 e nel ’26 conquistò la Coppa Davis. Negli anni immediatamente successivi al naufragio scalò le classifiche individuali fino al secondo posto assoluto, nel 1916.La cosa più incredibile fu la naturalezza con cui abbandonò la sua antica ossessione, con cui smise di cercare l’incrocio delle linee. Vinse e basta, liberato dal dolore più grande, cresciuto in una notte sola.