La Stampa, 10 settembre 2018
Sedici milioni di volti già nel database. È polemica sul riconoscimento facciale
I nomi e i volti sono quelli già inseriti nella banca dati Afis, il Sistema automatizzato di identificazione delle impronte usato ogni giorno dagli investigatori italiani per dare la caccia agli autori di reati. Sedici milioni di persone di cui sono conservate foto, identità, descrizione. «Di queste, nove milioni sono soggetti diversi. Gli altri sette sono individui registrati in più segnalazioni, o perché hanno commesso crimini più volte o magari perché trovati sprovvisti di documenti e nuovamente fotosegnalati» spiega Fabiola Mancone, dirigente della Polizia scientifica. È questa la massa critica di informazioni affidata a due algoritmi neurali di ultima generazione (2017), cuore del nuovo Sistema automatico di riconoscimento immagini (Sari), il software che sfogliando e confrontando le immagini ad altissima velocità cerca un “match” tra le foto custodite in archivio e le immagini registrate da telecamere di sorveglianza o da telefonini . «Quello che finora abbiamo visto nei film, è realtà» commenta Mancone. È accaduto per la prima volta a Brescia, venerdì scorso, quando due topi d’appartamento sono stati arrestati grazie al nuovo sistema di riconoscimento facciale. «In pochi secondi il sistema ci fornisce i nomi dei “candidati”, a partire da quelli con gli “score”, i punteggi più alti – spiega Mancone - Quindi l’operatore fa un ulteriore accertamento, una comparazione fisiognomica dei volti, per avvalorare il risultato».
Ma il nuovo meccanismo solleva interrogativi che alimentano il dibattito sulla rete sulla tutela della privacy.
Perché Sari è una medaglia a due facce. La prima è Enterprise, lo scenario in cui l’operatore cerca il volto catturato da una immagine. La seconda, che è ancora in fase di test, si chiama Real-Time, ovvero lo scenario in cui, come si legge nel capitolato tecnico dell’appalto, «in un’area geografica ristretta, una manifestazione o un impianto sportivo, per esempio, «si vuole analizzare in tempo reale i volti dei soggetti ripresi dalle telecamere confrontandoli con una banca dati ristretta e predefinita (definita watch-list)» composta da centinaia di migliaia di soggetti. Il Garante per la privacy, spiega Mancone, ha autorizzato l’utilizzo di Afis da parte di Sari, «perché si tratta della stessa banca dati che usiamo da decenni: non c’è nulla di nuovo se non lo strumento».
Ma cosa succederà quando sarà attivata la modalità Real Time? «Il riconoscimento facciale è una modalità ormai in uso alle polizie di tutto il mondo e la necessità di questo strumento è stata segnalata più volte dall’Interpol _ afferma Maurizio Mensi, docente di Diritto dell’ informazione alla Luiss ed esperto di privacy - naturalmente bisognerà controllare come sarà utilizzato, ricordo per esempio il caso dei “falsi positivi” in Inghilterra». Quanto all’utilizzo della videosorveglianza, «un controllo sistematico della popolazione non è consentito». E il Garante, ricorda, si è già espresso sulla questione nel 2010, affermando che i filmati non possono essere detenuti per più di 7 giorni e che eventuali richieste di ordine diverso devono essere motivate. «Il principio da rispettare è quello della proporzionalità - afferma -. Il sistema di rilevazione delle immagini deve essere reso conoscibile, modalità e tempi stabiliti in anticipo. Tuttavia, osserva Tommaso Scannicchio, avvocato e dottore di ricerca in Diritto privato comparato, fellow del programma “Libertà civili nell’era digitale” della Coalizione italiana Libertà e Diritti civili, «esistono rischi insiti nelle modalità di utilizzo di questa tecnologia»: «C’è un problema legato ai tempi di conservazione e alla tipologia dei trattamenti che potranno essere effettuati sulle videoriprese», e informare che sono in corso riprese di polizia, «non risolve il problema della compressione delle libertà individuali e dei diritti civili degli eventuali partecipanti a una manifestazione, che potrebbero sentirsi condizionati nei comportamenti ovvero evitare di partecipare per il timore di essere “schedati”».