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 2018  settembre 10 Lunedì calendario

Bordin e Seul ’88: «Fumavo e ingrassavo poi tornai alla maratona: la vinsi come un contadino»

La notte prima dell’esame Gelindo era andato a ballare: «Pensavo: tanto non dormo, preferisco rilassarmi». A cena Paolo Rosi, che all’inizio dell’ultimo chilometro, in diretta, definì "bellissimo" quest’austero ragazzo dai lineamenti antichi, dal volto scolpito o forse preso in prestito da un racconto di Svevo, lo prendeva in giro: «Ma veramente vai in discoteca?». Veramente.
C’era pure Lambruschini, che però le sue Olimpiadi le aveva finite. Trent’anni dopo quell’oro olimpico, il primo di un italiano nella maratona, a 59 anni appena compiuti, e con una mezza maratona corsa ieri a Bologna, Gelindo Bordin conferma le sue lontane e dorate scelte: «Feci benissimo, dovevo mangiare tardi, la gara era alle 14. Ero sereno. Non avevo bisogno di concentrarmi troppo».
Era tutto calcolato quindi...
«Con Luciano Gigliotti programmammo tutto. Ero tornato a correre da qualche anno, dovevamo porci dei traguardi importanti altrimenti non aveva senso mollare il lavoro.
Ci sedemmo intorno a un tavolo e io gli dissi: torno ma voglio vincere la maratona alle Olimpiadi. O così o niente. Ci volle molto perché Gigliotti smussasse i miei spigoli.
Sono stato l’unico suo atleta che andasse dosato. Fosse stato per me ...».
Perché aveva smesso?
«In Messico avevo contratto un virus misterioso. I medici rimasero interdetti, non capivano, non sapevano cosa curare. E io non riuscivo più ad allenarmi.
Appena acceleravo un po’ svenivo. Quando ripresi, e ripresi lentamente, con una fatica estrema, venni investito da una macchina. Sembravano segnali belli e buoni. A quel punto avevo praticamente deciso di lasciare per sempre. Iniziai a fare il geometra, lavoravo nei cantieri, fumavo, ingrassavo. Ero un uomo fatto. Avevo 24 anni e già un divorzio alle spalle. Precoce...».
Poi l’illuminazione.
«La corsa ti ruba il cuore e per riprendertelo devi tornare da lei.
Non c’è altra strada. Però io volevo tutto. Così tornai solo a condizione di prendermi l’oro. La maratona di Seul fu il risultato di una preparazione meticolosa».
Non si sarebbe contentato del bronzo dietro Wakiihuri e Salah.
«No. Cominciai il forcing quando mancavano meno di tre chilometri. Li passai. Mi sentivo i loro occhi addosso. Quelli di un’altra generazione conoscono la storia. Quando arrivai baciai la pista e rimasi lì. Molti pensavano che stessi pregando. In realtà mi si era bloccata la schiena».
Negli anni Ottanta lei e Tardelli avete cambiato la percezione della vittoria "televisiva".
«Sono stato uno dei pochi a non ascoltare in diretta le parole di Rosi e a condividere la sua esaltazione. Quasi quasi mi dispiace. Seul ha cambiato le cose della mia vita, anche le più invisibili. Se sono ora dirigente di un’azienda come la mia, lo devo anche al 2 ottobre del 1988».
A Barcellona nel ‘92 si fece male.
«Mi ruppi il menisco, sì. Non mi sono più ripreso. Chiusi con il professionismo. E per 12 anni non ho più corso. Errore madornale.
Per rimettermi in sesto, da adulto, ho pagato tantissimo. Ora sono un felice "amatore" che cerca di allenarsi con costanza».
Dove risiede la maratona, nelle gambe, nella testa, nel cuore, nei polmoni?
«La maratona è ovunque. Ha una componente spirituale che nessuno vede ma è cruciale. Ti insegna ad aspettare e poi anche a colpire, è una metafora dell’esistenza. Io ho messo a frutto l’esperienza della vita contadina di Longare nella quale son venuto al mondo: attendere la semina, il raccolto, l’uomo deve assecondare le stagioni, non aggredirle. E così la maratona, che va ascoltata, come una canzone. I miei genitori hanno vissuto la guerra. Si sorrideva diverso».
Al Sestriere c’è l’Altavia Bordin.
«Parte di quel sentiero lo abbiamo scavato noi con le mani».