Può spiegare il ruolo di Lu Xun nella letteratura cinese moderna e il suo nesso con Dante?
«Lu Xun è stato un sommo scrittore. Dalla fine dell’Impero al conflitto cino-giapponese e alle guerre civili che portarono alla Repubblica popolare, visse momenti cruciali della nostra storia e seppe trasformarli in vicende allegoriche. Ma soprattutto nel Diario di un pazzo, 1918, usò il cinese volgare detto
baihua rigettando per la prima volta la lingua classica, così come a suo tempo Dante abbandonò il latino per la lingua volgare».
Si nutre di quest’analogia la relazione di Lu Xun con l’autore della "Commedia"?
«Sì. Nel saggio Sulla forza della poesia di Mára, Lu Xun esalta i poeti del romanticismo europeo e indica la centralità di Dante nella cultura italiana. Proprio mentre la Cina stava cercando una nuova identità, Lu Xun esprimeva l’idea che la creazione della lingua italiana da parte di Dante avesse costruito l’anima stessa del suo popolo».
È in quest’ottica che Dante condiziona la Cina del primo Novecento?
«Esatto. All’alba del secolo gli intellettuali cinesi cominciano a occuparsi del pensiero politico di Dante e del suo vigoroso spirito riformatore. Oltre a Lu Xun, coglie spunti da Dante lo scrittore Hu Shi (1891-1962), di posizione politica opposta rispetto a Lu Xun (Hu Shi emigrò negli Usa). In Proposte per la riforma della letteratura, del 1917, Hu Shi sostiene che la Cina, imitando l’Italia del quattordicesimo secolo, dovrebbe adottare la lingua volgare e generare un corpus di opere vive contro la letteratura classica ormai morta. Il suo riferimento è l’opera di Dante De vulgari eloquentia ».
Lu Xun fu il solo scrittore
legittimo durante la Rivoluzione culturale. Perché?
«Era in linea con le concezioni di Mao Zedong, che in Discorsi su Lu Xun, del 1937, manifestava un pieno apprezzamento nei suoi confronti. La stima di Mao lo rese il grande letterato del proletariato cinese e si diceva che le sue opere fossero "un giavellotto e un pugnale lanciati verso i nemici".
Oggi è stato ridimensionato il giudizio su di lui. Un tempo Lu Xun era un antidoto necessario contro le resistenze verso il sistema, ma nella società contemporanea il clima è cambiato e non ce n’è più bisogno».
Dante è conosciuto in Cina?
«Da fine Ottocento si è parlato di lui in libri cinesi ed è entrato nei nostri orizzonti. Sia la rivoluzione borghese del 1898, che portò al crollo della monarchia feudale, sia il "Movimento della nuova cultura del 4 Maggio del 1919", hanno tratto da Dante un supporto fondamentale. Sembra incredibile che un poeta occidentale abbia influito su un remoto Paese orientale cinque o sei secoli dopo essere morto, ma è successo.
Tuttavia nel primo quarantennio del Novecento nessun cinese aveva letto La Divina Commedia per intero».
Non circolavano traduzioni complete?
«No. Nel 1921 Qian Daosun (1887-1966) tradusse i primi tre canti dell’Inferno per il Mensile di narrativa e in seguito propose in cinese altri due canti, apparsi nel ’29 insieme ai primi tre sulla rivista Rassegna critica.Usò lo schema metrico dei Canti di Chu di oltre 2200 anni fa, e sebbene la sua traduzione si sia applicata solo su cinque canti è considerata a tutt’oggi la migliore. Due versioni intere uscirono negli anni Quaranta, una in prosa e l’altra in poesia moderna, senza rime. Con la nascita della Cina comunista (1949), la fama di Dante s’intensificò grazie a Friedrich Engels, che nella prefazione italiana al Manifesto del Partito Comunista lo aveva definito l’ultimo poeta medioevale e il primo della modernità, e questa valutazione è riportata nel manuale di Storia dei nostri licei. In Cina La Divina Commedia è stata vista come simbolo di abbattimento del feudalesimo ed esaltazione di unità nazionale: Dante riflette gli interessi del popolo e svela i crimini della vecchia macchina statale. Alla fine della Rivoluzione culturale sono riprese le traduzioni e una delle più notevoli è stata quella che della Commedia fece Tian Dewang (1909-2000), che all’impresa votò gli ultimi diciott’anni della sua vita».