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 2018  settembre 10 Lunedì calendario

Yan Lianke: «La Cina mi censura ma se scrivo mi sento libero»

È l’incarnazione vivente delle contraddizioni della Cina di oggi. Yan Lianke ha avuto il permesso di parlare all’estero del suo romanzo, ma sa che i cinesi non lo leggeranno perché in patria è stato censurato (salvo procurarselo per vie traverse su Internet o via Taiwan). Nei giorni del Festivaletteratura di Mantova, che si è chiuso ieri, questo signore di sessant’anni dal fare gentile, amatissimo dagli intellettuali occidentali, tanto da essere ogni anno tra i nomi in corsa per il Nobel della letteratura, è stata una delle presenze più attese e interessanti. Del Nobel, che quest’anno avrebbe potuto vincere se il premio 2018 non fosse stato cancellato, però non vuole parlare: «Non è un fatto che mi riguarda. Mi preoccupo solo di scrivere». E sugli scandali che hanno coinvolto l’Accademia svedese glissa. Ma non si tira indietro quando gli chiediamo di spiegare perché I quattro libri, da poco uscito per Nottetempo, sia stato pubblicato a Taiwan ma non in Cina. Lianke non parla inglese e si affida alla traduzione di Gianluca Basso, che lo segue nei giorni mantovani. In passato ha lavorato per il regime, ora usa l’ironia per liberarsi dai lacci della burocrazia. Dice di aver covato questo libro per 18 anni.
Il romanzo è ambientato alla fine degli anni Sessanta, nei campi di rieducazione per intellettuali voluti da Mao. È questo ad aver dato fastidio?
«Gli editori cinesi chiedono di attenersi a una serie di regole. Se vengono violate scatta la censura. Non è la prima volta che mi capita: ho pubblicato in Cina quattordici libri e altri sette sono stati rifiutati».
Quali sono le regole a cui si riferisce?
«È sconsigliato parlare della Rivoluzione culturale e del Grande Balzo in avanti. L’idea di Mao era quella di permettere all’industria cinese dell’acciaio di raggiungere grandi livelli di produzione. In quella fasespuntavano fornaci ovunque.
Anche nel mio villaggio, nella provincia contadina del Henan.
Per questo parlare di acciaio è ancora oggi sospetto. In generale, meglio tralasciare fatti storici e questioni politiche e inserire più fiction. Anche Internet deve rispettare un regolamento».
Sono argomenti del secolo scorso, il presente fa meno paura?
«È sconsigliato parlare di piazza Tienanmen».
Lei ha raccontato di essersi a volte autocensurato. Come considera il suo ruolo di scrittore?
«So bene di non essere considerato un "bravo scrittore" perché ho più volte violato le regole ma sono contento di alzarmi ogni mattina e dire: oggi scrivo quello che voglio».
Non esattamente quello che vuole…
«Non scrivo pensando se poi mi pubblicheranno o meno. La
penna è la mia libertà».
Una libertà privata, al chiuso di una stanza, non è limitativa?
«So bene che il vostro concetto di libertà è diverso, che non si tratta di libertà assoluta. Ma considerando la storia cinese del passato è già tanto. Durante la Rivoluzione culturale si veniva controllati 24 ore al giorno. Le spie si annidavano anche tra i vicini di casa».
Lei è stipendiato come romanziere?
«Sono pagato come professore universitario. Ma gli scrittori a tempo pieno ricevono un compenso pubblico e gli viene assegnata una casa. Forse stanno meglio degli scrittori italiani ( sorride) ».
Qual è la sua storia, come ha fatto a diventare scrittore?
«Sono nato in un villaggio contadino sperduto dell’entroterra, regione del Henan. Eravamo così poveri che a volte era difficile anche fare un pasto completo. La maggior parte degli abitanti del mio villaggio non hanno avuto la possibilità di studiare. Io sono riuscito a frequentare la scuola fino al primo anno delle superiori, poi ho dovuto abbandonarla per aiutare i miei familiari nel lavoro dei campi».
A suo padre ha dedicato un libro, "Pensando a mio padre".
«Quella di mio padre era una Cina diversa. Oggi per fortuna tutti hanno da mangiare e difficilmente si patisce la fame come è successo a me da bambino, ma il comportamento delle persone è più confuso, la maggior parte della gente pensa solo a fare soldi».
È vero che ha iniziato a scrivere quando era nell’esercito?
«In realtà prima, a sedici anni. Da adolescente ero costretto a passare tutto il giorno a lavorare nei campi, fino a quando lessi una storia curiosa. Un contadino della provincia di Heilongjiang aveva scritto un racconto che era piaciuto alle autorità centrali e grazie a questo apprezzamento era riuscito a trasferirsi nel capoluogo per un lavoro meno stancante. Desideravo anch’io vedere com’era il mondo fuori dal mio villaggio, così pensai: se scrivi un buon racconto avrai la stessa possibilità. Da quel momento iniziai a leggere e a scrivere tutto il giorno, non appena avevo un po’ di tempo libero. Poi sono entrato nell’esercito».
E ha scritto per la propaganda.
«Mi sono arruolato a 20 anni.
Grazie all’esercito ho potuto completare il mio percorso scolastico per corrispondenza. Ci scherzavo su, dicendo che era un modo per avere da mangiare e la possibilità di viaggiare. Prima di allora non avevo mai preso un treno. Mi sono laureato nel 1991 all’università nazionale dell’esercito di liberazione. Sono rimasto nell’esercito fino al mio quarantaseiesimo compleanno.
Ho scritto per la propaganda di regime fino al 1993».
E dopo che cosa è successo?
«Per la prima volta è stato censurato un mio racconto. Da lì ho deciso di scrivere solo quello che volevo ed ho scritto Servire il popolo (ndr, il romanzo, censurato dal regime, racconta la storia di un giovane che offre i suoi servizi sessuali alla moglie del comandante. In Italia è stato pubblicato da Einaudi)».
Tra libertà e sicurezza cosa è più importante?
«Sono entrambe parole importantissime, ma noi cinesi pensiamo che la sicurezza lo sia di più. Senza la sicurezza la libertà perde il suo significato.
Con la sicurezza si può raggiungere la libertà».