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 2018  settembre 10 Lunedì calendario

Cuarón: «Polemiche inutili su Netflix. Tanti non vanno al cinema»

VENEZIA «Ricevere il premio da uno dei miei più cari amici mi è sembrato surreale», dice Alfonso Cuarón, col pensiero rivolto al presidente di giuria della Mostra, il connazionale Guillermo del Toro. Cuarón ha girato il suo Amarcord in bianco e nero. Tutte le strade portano a Roma, qui però si intende un quartiere di Città del Messico, dove il regista ha trascorso la sua infanzia.
Subito dopo la proiezione, era apparso chiaro che il film, affresco dal respiro epico era il titolo da battere. E infatti il Leone d’oro è andato a lui, giudizio unanime della giuria: «Il premio ha un incredibile significato per me, questo film è un immenso atto d’amore per la mia famiglia e il Messico, come Guillermo sa. È un ritratto intimo, personale delle donne che mi hanno cresciuto».
Tornato al Lido cinque anni dopo Gravity, ha portato la sua Madeleine dove ritrova antichi odori, colori, rumori (l’arrotino, la banda). Alla ricerca del tempo perduto, dominato da una famiglia matriarcale e con un padre assente, si consuma un’esperienza quasi sensoriale che ti ipnotizza, piccoli gesti quotidiani, poi il terremoto del 1970, o la strage del Corpus Christi, i gruppi paramilitari contro gli studenti che manifestano, i manganelli, le camionette, la violenza che si scatena improvvisa e lambisce la sua famiglia.
Un film sulla memoria.
«È il più autobiografico che potessi fare, al 90 percento sono scene della mia vita. Ma non è un’operazione nostalgica. Mi sono avvicinato ai ricordi senza giudicare. Ho rivisitato quei tempi con la prospettiva di oggi. La ricostruzione dei luoghi è identica, ho recuperato per larga parte i mobili originali appartenuti alla mia famiglia: c’è una sedia di mia nonna, un ritratto di mia madre, perfino il cane è identico a quello della mia infanzia».
Perché ha voluto tornare all’infanzia?
«Forse perché sto invecchiando. Il film è una cicatrice emotiva, personale: la cicatrice non è quel massacro. Purtroppo le tensioni tra classi sociali in Messico non sono cambiate, anzi la situazione è peggiorata. A noi messicani piace criticare il razzismo degli americani, poi ci comportiamo allo stesso modo, il Messico è un Paese profondamente razzista».
Cosa le manca di quel periodo?
«La musica. E basta».
La grande Storia che irrompe in una famiglia: si possono ritrovare il cinema di Ettore Scola o i romanzi di Tolstoj.
«Confesso che questa è la prima volta in cui non mi sono riferito a nulla, mentre tutti gli altri miei film abbondano di echi letterari».
Netflix ha prodotto il film...
«Francamente, non capisco le polemiche. Questo film è progettato per le sale e per la piattaforma digitale visibile da tante persone che non hanno la possibilità di andare al cinema. La cosa importante è la longevità di un film e in questo le nuove piattaforme sono meravigliose. Posso fare io una domanda?».
Certo.
«Qual è l’ultima volta che avete visto in sala un film di Bergman o di Antonioni? I due ambiti non si annullano fra loro».
Come ha lavorato con le attrici protagoniste?
«Nessuna di loro aveva la sceneggiatura, imparavano i dialoghi giorno per giorno, chiedevo reazioni spontanee. La tata (il nome di quella vera è Cleo e ha festeggiato il compleanno l’altro ieri, quando ho vinto il Lone d’oro) viene da una zona indigena di un villaggio rurale. La impersona Yalitza Aparicio che aspira a diventare insegnante, dopo il secondo giorno aveva capito come funziona un set. L’unica attrice professionista è la padrona di casa. Sono le donne che a casa mia portavano avanti la famiglia. Nel film il padrone di casa, medico stimato e agiato, dal giorno alla notte sparisce con un’altra e non manda più soldi a casa».
Cosa ricorda di una storia così privata, così sua?
«Sono stati 110 giorni di riprese appassionanti, abbiamo usato la lingua del mio Paese, non ho voluto imporre l’inglese in una storia come questa».