il Fatto Quotidiano, 9 settembre 2018
Intervista a Paolo Pablito Rossi
Per lui Juventus, Milan, Lanerossi Vicenza e tutte le altre squadre di calcio nelle quali ha giocato sono fasi della vita. Belle. Ma solo fasi. La Nazionale no, la maglia Azzurra Paolo Rossi la sente addosso come forza, riscatto dopo la squalifica del 1980, orgoglio, condivisione, la mejo gioventù da non perdere. E ancora oggi, a 61 anni, si emoziona quando ne parla (“sono momenti irripetibili, la seguo sempre, meno venerdì per questioni personali e gravi”), si avvelena se alcuni calciatori la sottovalutano (“quando ti convocano, ci devi andare anche a piedi”) e ogni giorno chatta con i Campioni del 1982 (“non parliamo sempre di pallone. Anche di altro…”, sorride malizioso). La carriera di allenatore non lo ha mai realmente interessato (“è difficilissima”), ha preferito spendere il suo talento davanti allo schermo tv; quest’anno, come ai tempi d’oro, è stato oggetto di “mercato” prima di finire alla Domenica Sportiva da opinionista, accanto al “socio” azzurro, Marco Tardelli e alla conduttrice Giorgia Cardinaletti.
È considerato tra i primi calciatori-idolo pop della storia.
Realmente?
Così pare.
In qualche modo è vero, e sulla mia maglia sono comparsi gli sponsor dopo il Mondiale del 1982, e sono iniziati anche i primi spot per la Federazione.
Pionieri.
Spesso frutto di casualità, eravamo dei rabdomanti del progresso, viaggiavamo a occhi chiusi verso il domani, con alle spalle logiche a volte ancestrali. Neanche ci rendevamo bene conto delle strade che stavamo aprendo. E i reali benefici sono stati a beneficio di altri arrivati dopo di noi.
A voi le briciole.
Senza esagerare, ma sul piano economico non viaggiavamo al ritmo degli ultimi due decenni. Però credo di aver vissuto un gran bel calcio, e per fortuna ho giocato prima dell’arrivo della legge Bosman (nel 1995 per la libera circolazione dei calciatori in Europa), altrimenti la mia carriera sarebbe stata molto differente.
Ne è certo?
Quanti italiani scendono attualmente in campo?
Non molti.
Appunto. E poi non ero un fenomeno atletico, non ero nemmeno un fuoriclasse assoluto.
Cosa era?
Un attaccante rapido e intuitivo, la mia forza nasceva dalla testa, dalla lucidità, dall’intuito. Vincevo sulla frazione di secondo, arrivavo all’improvviso con la punta del piede e fregavo gli avversari. Causavo dei bei mal di testa a chi mi marcava.
Pochi gol da fuori area.
Appunto, pochissimi. I difensori spesso non capivano dove stavo.
Insomma, nessun rimpianto.
Niente e neanche invidia. Sono certo di aver goduto di un calcio più vero, non artefatto; tutti vivevamo per la domenica, mentre oggi assistiamo a una dispersione assurda, dove ogni emozione è diluita, frammentata e parcellizzata nell’arco delle ore, non dei giorni. E negli Ottanta c’erano i campioni, quelli veri.
Nostalgia canaglia.
Ho giocato con Platini, ho visto Zico e Maradona. Basta?
C’è Cristiano Ronaldo.
Di questo non c’è dubbio, vediamo…
L’attenzione totale per CR7, non la trova da provinciali?
Da cinque anni è il numero uno; è un grande e in simbiosi con questa epoca social, e dopo la nostra mancata qualificazione ai Mondiali, rappresenta l’ossigeno. E anche qui mi tocca diventare retrò…
Prego.
Penso ai social…
Ri-prego…
Noi non subivamo tutte queste attenzioni, non eravamo perennemente in vetrina. Leggevamo i giornali, temevamo i giudizi, aspettavamo il resoconto del lunedì, e poi via agli allenamenti. La partita era l’apice della settimana, mentre adesso, a volte, sembra solo la parte residuale del chiacchiericcio.
Lei non è social.
No! Già fatico a mantenere una vita privata, e da sempre. Al contrario del mio ruolo da giocatore, qui vado in difesa. Rispetto le priorità. (Ci riflette…) Non ho questo tipo di mentalità moderna.
La fama l’ha mai spaventata?
La popolarità e il successo che ho vissuto sono arrivati come conseguenza, mai come un fine; mi ci sono ritrovato.
Non a suo agio.
Sono passati trent’anni da quando ho smesso, e se mi fermano sono contento, e poi trovo doveroso restituire, rientra nel gioco dei ruoli.
Non è andato al Napoli perché il pubblico è troppo caloroso.
Non è vero.
Ne è certo?
Ho rifiutato solo per ambizione, ritenevo la squadra non all’altezza. Tutto qui. Quella del “no” per il tifo è solo una leggenda.
Da commentatore non trova spesso noiose le dichiarazioni dei calciatori.
Quando li ascolto so già cosa stanno per dire. Ogni parola è come se l’avessimo sentita decine e decine di volte.
Come mai?
Paura, timore, atteggiamento, società alle spalle pronte a limitarli: è un mix.
Il risultato?
Dichiarazioni meno sincere e meno fresche, secondo me creano anche un danno perché allentano la giusta tensione e danno al pubblico la sensazione di trovarsi davanti a dei normali dipendenti di un’azienda.
E voi opinionisti?
Abbiamo la responsabilità di andare oltre certe prassi oramai consolidate.
Si sente agitato davanti alla telecamera?
Forse nei primissimi anni da calciatore, adesso no. Ma attenzione: caratterialmente non sono mai stato un tipo ansioso né ansiogeno, ho cercato di controllare il tempo con la testa.
Sempre.
Giusto con la Nazionale ho sentito la pressione, poi basta.
Nel 1982 era il salvatore della Patria.
Mamma mia che pressione! Vivevo ogni minuto avvolto da adrenalina e ansia da prestazione, mi sentivo responsabile di tutto e di tutti, la fortuna è stato quella di trovarmi con dei compagni di squadra fantastici e un allenatore come Bearzot. A loro devo dire sempre e ancora grazie.
Oltre a Bearzot, a chi in particolare è grato?
Penso ad Antonio (Cabrini): dormivamo in stanza insieme e alle sistematiche chiacchierate e confidenze prima di addormentarci. Non parlavamo solo di calcio, ma di noi come persone; uno non deve mai dimenticare un fattore chiave: eravamo dei ragazzi poco più che ventenni con gli occhi dell’Italia addosso.
Chi altro?
Marco Tardelli, gran bella testa sulle spalle, è sempre stato uno in grado di approfondire (si ferma ancora…) Davvero, siamo e siamo stati un gruppo irripetibile. Uniti a prescindere. Tra di noi c’è un legame che va oltre; siamo l’emblema di cosa vuol dire il gruppo.
Dicono sia la celebre chat dei campioni…
Tutti i giorni ci scambiamo messaggi.
I più attivi?
Bruno Conti, Ciccio Graziani e Alessandro Altobelli.
Argomenti affrontati.
Qualche giudizio sui calciatori, ma in realtà di pallone veramente poco. Scherziamo più su altro, ma non rivelerò il contenuto, come dicevo siamo pur sempre una squadra e manteniamo le regole dello spogliatoio.
È saturo di pallone?
Seguo i momenti più importanti, senza cadere nella maniacalità, ed è anche per questo che ho scelto di non diventare un allenatore; chi allena deve restare connesso 24 ore su 24, vivere tutti i giorni il campo, occuparsi dei calciatori pure in chiave psicologica. In alcuni momenti deve diventare il confidente dei ragazzi. Non se ne esce mai.
Per carità.
Non sarei capace. Ribadisco: nella vita non ci può essere solo la liturgia del rettangolo.
Incontro fondamentale della sua vita?
Oltre Bearzot? Gigi Fabbri (suo allenatore a Vicenza nel 1978). È lui ad avermi scoperto attaccante, quando allora giocavo sulla fascia; è lui ad aver intuito il mio intuito per il gol. Sulla fascia non avrei ottenuto questa carriera.
Si sente un simbolo?
Mai, proprio per niente. Mai legato a una maglia in particolare, non sono come Boniek, Platini o alcuni dei miei compagni di Nazionale.
Solo quella azzurra.
Lì è un’altra storia, il pubblico vede in me quell’immagine e non sa quanto lo apprezzo, anche perché al giorno d’oggi tutto è improntato al frazionamento. I club dividono. La Nazionale è l’unico momento di condivisione sportiva su ampia scala.
Il giorno del suo esordio in azzurro…
Forse uno dei momenti più belli della mia vita (Italia-Belgio 1977). Ricordo i minuti dell’inno, sentivo una paura folle, mi guardavo attorno ma quasi non vedevo nulla; non mettevo a fuoco il pubblico in tribuna. Poi al fischio d’inizio sono stato preda di una sensazione di forza assurda.
In campo è stato picchiato molto?
Cavolo! Ho preso tante di quelle botte… Vierchowod mica lo dimentico, era terribile, un duro; poi sembrava di ferro, quando gli andavi addosso erano cacchi amari: rimbalzavi. E poi i difensori della Germania nella finale del Mondiale, terribili, si sono inventati la qualunque pur di fermarci. Eppure gli ho segnato contro.
Zico l’ha definita il “boia del Brasile”.
Lui parla e parla, ma quando vuole imparare qualcosa viene sempre in Italia; attenzione: oggi siamo amici.
Resta una ferita per i Carioca.
La mia tripletta ancora se la ricordano, per loro è una ferita nazionale. Un giorni in Messico incontro Ronaldo: “Da noi hai lasciato un ricordo davvero brutto, ma ti stimiamo lo stesso”.
Ha un omonimo celebre.
E dal vivo mi ha raccontato una storia che poi ha inserito nei suoi spettacoli: due carabinieri lo hanno fermato, controllato i documenti, si sono consultati, e poi gli hanno chiesto se eravamo fratelli. Stupendo.
Paolo Rossi non è quindi un emblema…
Però recentemente una coppia al mare mi ha chiesto di sposarla, perché “sei un simbolo anche di questa spiaggia”. Ho accettato e sorriso…