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 2018  settembre 09 Domenica calendario

Biografia di Venanzio Sella, fratello di Quintino

Aveva cominciato a lavorare da apprendista nella fabbrica del padre, una sorta di casermone in riva al torrente Cervo, Giuseppe Venanzio Sella, appena specializzatosi nel 1843, a vent’anni, alla Scuola di commercio di Torino, dopo aver frequentato nel ginnasio di Biella il corso di filosofia. Ma studiava la sera per arricchire le sue cognizioni in chimica e meccanica. E, la domenica, compulsava i libri della biblioteca di un suo zio, Gregorio Sella (futuro deputato dal 1849 al Parlamento subalpino): oltre ai trattati di economia politica di Antonio Scialoja e di Francesco Ferrara, e ai saggi di Guizot e di altri storici, le opere dei grandi chimici del Settecento. Poiché non bastavano più i “mulini” per macinare l’indaco, le macchine per triturare i legni coloranti e pestare i sali e i mordenti. Era giunto così a elaborare un proprio trattato sull’arte tintoria, pubblicato nel 1851, col titolo Polimetria chimica, e presentato all’Accademia delle Scienze di Torino, sul metodo migliore per confezionare un prodotto dal colore ben impresso.
Lo stesso anno Giuseppe Venanzio (che intanto, alla padronanza della lingua francese, aveva unito quella dell’inglese) si era recato a Londra, alla prima Esposizione universale, per prendere visione di nuovi macchinari. Inoltre si era interessato alla riproduzione di immagini su lastra tramite il procedimento inventato da Louis-Jacques-Mandé Daguerre. Ogni volta che capitava a Parigi frequentava perciò i laboratori dei fotografi più in vista: finché decise nel 1856 di dare alle stampe a Torino un trattato, il primo firmato da un italiano, col titolo Plico del f otografo, e dedicato al suo amico veneziano Federico Martens (addetto al gabinetto fotografico di Napoleone III).
Frattanto, in seguito alla partecipazione del Regno di Sardegna alla spedizione in Crimea (accanto a Francia e Inghilterra) contro la Russia, il suo lanificio aveva smaltito un notevole flusso di commesse, i cui proventi erano stati investiti per lo più in buoni del Tesoro e destinati per il resto all’ingrandimento della fabbrica e alla costruzione di un canale idraulico sotterraneo per accrescere la forza motrice con nuove turbine. Giuseppe Venanzio si era poi trovato, dopo la scomparsa nel 1860 del fratello Gaudenzio, a dirigere da solo lo stabilimento della famiglia, con l’intento di farne un opificio di tipo manchesteriano; continuando per il resto a percorrere mezza Europa nei suoi viaggi d’affari. Su di lui, quale commissario del Comitato italiano per l’Esposizione di Londra del 1862, era caduta perciò la scelta del governo affinché affiancasse i più autorevoli rappresentanti dell’industria laniera europea. Sennonché Giuseppe Venanzio dovette occuparsi ben presto delle prime agitazioni dei tessitori nel Biellese. E proprio nel suo lanificio era scoppiato nell’aprile 1864 il primo sciopero generale degli operai tessili.
Peraltro, non era stata questa l’unica questione che lo aveva allarmato. Alcuni notabili clericali locali fomentavano infatti l’opposizione contro il fratello, il ministro delle Finanze, autore dell’incameramento dei beni ecclesiastici e dell’aumento delle imposte. C’era perciò da preoccuparsi seriamente in vista delle elezioni nel novembre 1865. Ma anche questa volta Giuseppe Venanzio era riuscito a raccogliere appoggi autorevoli alla riconferma di Quintino.
Nei giorni successivi, dato che si accingeva a recarsi a Pest per acquistare delle lane e poi a Vienna per procurarsi alcuni macchinari a prezzi accessibili, Quintino gli aveva raccomandato di dire in tutti i suoi incontri con vari uomini d’affari che il nostro governo seguitava a osservare un atteggiamento conciliante verso l’Austria in attesa che si decidesse a negoziare la rinuncia a Mantova e alle fortezze del Quadrilatero dietro adeguati compensi economici. Naturalmente, il presidente del Consiglio Alfonso Lamarmora era al corrente di questa missione esplorativa, che Giuseppe Venanzio compì riscuotendo peraltro udienza solo in Ungheria (dove erano forti le istanze autonomiste). A ogni modo, le impressioni da lui riportate erano risultate utili alla vigilia della guerra, in alleanza con la Prussia, che l’anno dopo, malgrado i rovesci subiti a Custoza e a Lissa, si concluse con l’annessione del Veneto.
Tornato alla sua consueta attività, Giuseppe Venanzio aveva considerato l’istruzione professionale la chiave di volta per un salto di qualità del sistema industriale, in quanto si sarebbe potuto contare su «operai ugualmente buoni ed abili come nei paesi esteri, avere apparecchiatori, tintori, tessitori, meccanici ecc., ricchi di cognizioni, capaci di portare l’industria all’altezza del nostro tempo». Il suo progetto per l’istituzione di una Scuola professionale andò in porto nel 1869 e quella di Biella fu non solo una delle prime del genere in Italia, ma anche un laboratorio dove si sperimentò l’applicazione dei coloranti di anilina. 
Quanto fosse poliedrico il suo impegno, lo attesta un’altra iniziativa, da lui promossa (insieme a Quintino) per la creazione di un Istituto di credito attento alle esigenze finanziarie delle aziende tessili, che vide la luce nel settembre 1869 con la denominazione di Banca Biellese. Assuntane la presidenza, Giuseppe Venanzio festeggiò, l’anno dopo, all’indomani della disfatta del Secondo Impero a Sedan nella guerra franco-prussiana, la breccia dei nostri bersaglieri a Porta Pia. Aveva poi scritto, il 1° luglio 1871, a Quintino, che si era battuto per l’acquisizione di Roma a capitale del Regno: «Tu ora ottenesti risultati le cui conseguenze saranno incalcolabili, hai fatto celebre il nome della nostra famiglia e lo hai associato al più grande avvenimento che da più di mille anni sia successo in Italia».
Già da tempo Giuseppe Venanzio, in possesso della lingua tedesca, aveva cominciato a guardare con molto interesse alla Prussia: non solo perché orientata verso una politica economica alternativa a quella liberista della Gran Bretagna, e quindi congeniale ai Paesi (come l’Italia) alla rincorsa dell’Inghilterra, ma anche perché impegnata ad assecondare la cultura tecnico-scientifica. Aveva così dato alle stampe nel novembre 1870 (quasi in concomitanza con l’esordio dell’Impero tedesco) un suo scritto, dal titolo Burschenschaft, ossia la vita degli studenti in Germania, pubblicato a Biella e ben accolto a Berlino, in cui auspicava che da noi si prendesse a modello, sia pur con le debite varianti, quello educativo tedesco. 
Benché appartenente alla ristretta cerchia della classe dirigente post-unitaria, educata agli ideali risorgimentali e laici, Giuseppe Venanzio non aveva mai ostentato le prerogative del suo rango. Ciò a cui teneva era la sua reputazione professionale. Perciò, da quando aveva cominciato a circolare l’ipotesi di una sua nomina a senatore, aveva pregato, nel gennaio 1876, Quintino di far sapere che il suo posto era «in casa a fare onestamente il negoziante».
Pochi mesi dopo, il 31 maggio, a soli cinquantatré anni, Giuseppe Venanzio scomparve. Di lui Quintino ebbe a dire: «Mi fu più padre che fratello, più padre del mio padre naturale». Tra le sue ultime volontà Giuseppe Venanzio aveva deciso anche di donare la propria biblioteca, di oltre 12mila volumi (fra cui molti classici), al municipio di Biella affinché lo mettesse a disposizione dei cittadini e in particolare dei giovani. 
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Settima e ultima di una serie di puntate 
Le precedenti puntate della serie
«La grande impresa» sono state
pubblicate il 29 luglio, il 5, 12,
19, 26 agosto e 2 settembre
Valerio Castronovo