La Stampa, 9 settembre 2018
Sta arrivando un’altra crisi
«Una crisi è una cosa terribile da sprecare». Me lo disse Vikram Pandit, il capo della banca americana Citigroup durante la Grande Crisi del 2008. All’epoca, Citi era alla frutta e l’amministratore delegato voleva convincere gli investitori e la stampa che il crac era, in realtà, un’opportunità per ricostruire il sistema finanziario.
Un decennio dopo, investitori, esperti e politici affermano non solo che la Grande Crisi è stata sprecata ma che stiamo precipitando verso un nuovo crollo. Banchieri, analisti e persino il sobrio Economist hanno celebrato i dieci anni dalla bancarotta di Lehman Brothers – lo zenith della crisi – con lamenti sul fatto che il mondo non abbia imparato le lezioni del 2008. In un certo senso, hanno ragione. I mercati sono alle stelle, spinti da valutazioni generose (o inflazionate) per giganti della tecnologia quali Apple e Google; le banche stanno facendo soldi come se piovesse e il capo di JPMorgan, Jamie Dimon, l’unico titano della finanza che era già in sella nel 2008, ha persino predetto un’«età dell’oro» per la finanza. A Washington, il Congresso, guidato dai tweet di Donald Trump, sta abolendo o diluendo le leggi imposte dopo il caos del 2008. «Siamo all’inizio di qualcosa di grave ma non riesco ad individuare di preciso che cosa sia», mi ha detto un manager americano che durante la crisi era al comando di una grande banca. Il rischio c’è ma non si vede. Alcune Cassandre, come Rodgin Cohen – l’avvocato preferito di Wall Street –, sono preoccupate dalla frammentazione, isolazionismo e protezionismo del sistema economico del dopo-crisi. Altri, come Alistair Darling – il ministro inglese delle Finanze durante la crisi – pensano che il prossimo disastro sarà causato da un attacco cibernetico contro una banca o l’intera infrastruttura dei pagamenti, l’equivalente di un virus che attacca il sistema nervoso del corpo umano.
Nell’economia reale, il problema più grave creato dalla crisi e non ancora risolto è lo stato pietoso dei consumatori sulle due sponde dell’Atlantico. Non bisogna dimenticare che il tornado del 2008 fu scatenato da una bolla dei mutui immobiliari negli Stati Uniti. Poco prima della crisi, circa sette americani su dieci erano «proprietari» di case, frutto di prestiti troppo facili, o peggio, frodi e bugie spudorate. La recessione del 2008-2009 spinse 9 milioni di americani ad abbandonare la propria casa, facendo crollare i prezzi degli immobili e spingendo la disoccupazione alle stelle.
I consumatori Usa hanno perso un decennio – un periodo lunghissimo in cui l’economia americana e, per riflesso, quella mondiale sono state private del motore fondamentale per la crescita: la spesa di famiglie ed individui. L’Europa ha sofferto di una malattia simile, esacerbata da periodiche mini-crisi (la Grecia, l’euro, l’immigrazione ecc). Le ripercussioni politiche sono evidenti: il deserto economico del 2008 è stato terreno fertile per il populismo di Trump, Orban, Salvini e compagnia. Non tutto è perduto. Le società finanziarie sono molto più sicure e meno pronte a rischiare i soldi dei risparmiatori. L’economia Usa e quella della zona-euro sono state «curate» dall’enorme stimolo somministrato dalle banche centrali negli ultimi anni.
Rimane da vedere come quei pazienti reagiranno al ritiro della medicina e se gli «spiriti animali» del capitalismo di cui parlava Keynes subentreranno ai soldi di Stato della Bce e Federal Reserve. E poi ci sono le bolle finanziarie che si stanno gonfiando, sia sotto i riflettori del mercato – quella della tecnologia – sia a riparo da occhi indiscreti – i «prestiti a leva» tra società, banche ed altri intermediari finanziari. È facile predire che, prima o poi, uno di questi eccessi porterà ad un’altra crisi. Più difficile è capire il dove e quando.
A dirla con i latini, sprecare una crisi è umano ma perserverare sarebbe diabolico.
Francesco Guerrera è il direttore di Dow Jones Media Group in Europa. francesco.guerrera@dowjones.com. Twitter@guerreraf72