la Repubblica, 9 settembre 2018
Il tradimento di Garibaldi
L’utima volta che parlai con il gran vecchio fu il primo novembre del Sessanta, davanti alle mura di Capua assediata. Ormai i generaloni piemontesi avevano deciso di bombardare, e difatti le batterie stavano già pronte in postazione, dietro i gabbioni di graticcio interrati, con le piramidi delle palle ben ravversate e le cataste delle cariche e gli artiglieri in pieno assetto, con le loro borse e gli alti chepì dal pennacchietto di crine e gli scovoloni impugnati, quasi volessero impressionarci con tanta ostentazione d’ordine e di perizia. E noi li stavamo a guardare, senza che tuttavia si barattasse una parola. A quei tempi, come ho già spiegato, io comandavo un battaglione della brigata Basilicata, general Clemente Corte, primo reggimento. Le disposizioni erano che tutto il mio riparto avrebbe trascorso la notte accosto al cimitero di Santa Maria, e i miei uomini si andavano sistemando come meglio si poté, quando comparve Garibaldi in fondo allo stradone di Caserta. Comandai subito che tutti pigliassero le armi per salutare, e quand’egli fu dinanzi al battaglione schierato fermò la cavalla e fe’ cenno che mi avvicinassi. ‘Vedete’, mi disse con quella voce che innamorava, ‘vogliono bombardare a tutti i costi e io me ne vado perché non ho cuore di assistere a tanto barbaro spettacolo. Nessuno deve avere diritto a chiamarmi bombardatore’. Mi strinse la mano, salutò a voce alta i volontari che, rotte le file, gli si affollavano intorno: ‘Addio, figlioli, addio!’ E sparì”. In questo modo uno scrittore dei nostri giorni racconta, mettendosi nei panni di un ufficiale dei Mille, l’ultimo addio di Garibaldi ai suoi uomini. In realtà già da qualche giorno aveva ceduto il comando al suo capo di stato maggiore generale Sirtori. Ora si apprestava a tornarsene nella sua Caprera, senza assistere al bombardamento di Capua. Poche ore dopo i cannoni del generale Della Rocca aprivano il fuoco sulla città. Racconta uno che c’era davvero: “A noi che assistevamo per la prima volta allo spettacolo d’una città bombardata, parve che a Sebastopoli non si fosse fatta maggior gazzarra; ma in sostanza il bombardamento di Capua non fu se non molto chiasso per nulla e poche buche spalancò e pochissimi morti vi cacciò dentro, e si contarono sulle dita i tetti che ne furono sprofondati e le muraglie che ne furono rotte. Le nostre bombe, per la più parte, sospinte dal vento, caddero nel fiume, a tergo della città, e solo quando la cupola del duomo fu rotta in due punti, il popolo spaurito andò a piangere dall’arcivescovo, e questi supplicò il generale comandante che avesse compassione e non si ostinasse in una inutile difesa”. Non si arrese subito, all’opposto, la fortezza di Gaeta; al generale Cialdini occorsero cento e un giorno per prenderla, e gli ufficiali borbonici che la seppero difendere così a lungo, se ne fecero poi un titolo di merito: scrivevano sui loro biglietti da visita, sotto il nome e cognome, ‘ capitolato di Gaeta’, quasi che fosse un distintivo di onore. Senza combattere si arrese invece la cittadella di Messina, e l’ultima piazza a cedere le armi fu Civitella del Tronto. La guerra per il Meridione era finita; ma già ne stava cominciando un’altra, più lunga, più dura, più sanguinosa. Anzi, più sanguinosa di tutte le guerre risorgimentali messe insieme. Ne parleremo più avanti; per intanto basti sapere che fu una guerra civile, fratricida, atroce. I libri di storia ne parlano poco volentieri, e la chiamano repressione del brigantaggio. E invece fu la guerra dei briganti. Si andava preparando la liquidazione dell’esercito garibaldino, e gli ufficiali piemontesi non risparmiavano a questi valorosi i segni anche esteriori del loro dispregio. Il giorno 6 si sparse la voce che il re li avrebbe passati in rassegna, e tutti furono schierati davanti al bel palazzo reale di Caserta, in attesa. Trascorrevano le ore, lente e tristi, qualcuno cercava di ingannarle azzardando una battuta di spirito, addirittura manifestando il proposito, non appena il re fosse giunto, di prenderlo di forza con sé e di trascinarselo dietro, giocondamente, oltre il Volturno, verso Roma. Invece il re neanche si fece vedere, non mandò né un appello, né un proclama, né un saluto. I garibaldini se ne tornarono imprecando ai loro alloggiamenti. La mattina del 9, al campo di Marte, si doveva fare una grandiosa parata. Il generale Sirtori pregò Della Rocca di farvi partecipare anche le camicie rosse, per presentarle finalmente al re e dissipare il malumore che si era creato. Della Rocca ebbe la faccia tosta di rispondere che non gli pareva opportuno, in una cerimonia tanto solenne, far sfilare soldati male in arnese, diciamo pure straccioni, stanchi per la lunga campagna. I signori ufficiali tuttavia, volendo, potevano intervenire, e sarebbero stati i benvenuti. Naturalmente gli ufficiali risposero che alla parata non andavano senza i loro uomini. Uno ce ne fu che invece andò: si chiamava Stefano Siccoli, era mutilato d’una gamba e Garibaldi, a Talamone, gli aveva ordinato di non imbarcarsi più, considerando il suo stato. In qualche modo era poi riuscito ad andare in Sicilia, e si era battuto da prode. Ora, nonostante il parere contrario dei suoi colleghi, voleva andare alla parata, a cavallo, seduto su una sella fatta apposta per uno come lui. Anzi, andò a mettersi nel seguito del re, e quando il capo del cerimoniale gli si fece accanto per dirgli che non era quello il posto suo, rispose: “Sarà come voi dite, ma io non venni qua senza invito, e sono ufficiale come tutti gli altri, e non piglio lezioni dai servitori”. “Sta bene”, ribatté il capo del cerimoniale. “Ora io le dico che se lei non obbedisce colle buone, troverò altri mezzi per farlo obbedire”. Stefano Siccoli non ci vide più dalla rabbia, afferrò il frustino e lo diede in faccia a quella specie di maggiordomo. Costui, la faccia insanguinata, cominciò a urlare e si rivolse a un maggiore dei carabinieri per chiedere vendetta. Ma Siccoli, sempre a cavallo, salì sul marciapiede, spalle al muro, la mano alla spada, deciso a tagliare la faccia a chi osasse avvicinarsi. La scena non sfuggì al re, che per intanto si limitò a guardarlo male, ma il giorno dopo lo fece arrestare nel Castello dell’Uovo. (...) Cavour era diventato improvvisamente generoso: proponeva al re di regalare a Garibaldi “un piccolo bel battello” e di concedergli il grado di generale d’armata “il che equivale al titolo di Maresciallo. Gli si è offerto un appannaggio per il suo primogenito, una dote per sua figlia, il dono di un castello reale. Dopo qualche esitazione Garibaldi ha rifiutato tutto”. In quanto ai volontari erano messi a questa scelta: entrare nell’esercito regolare, dopo aver disciolto i propri reparti, e restarci due anni, oppure congedarsi subito con un mese di paga. Eguale trattamento agli ufficiali (nel loro caso i mesi di paga erano sei), ma solo dopo che un’apposita commissione mista avesse ultimato il cosiddetto ‘spurgo’. Era una bruttissima parola, per indicare il vaglio dei meriti di ciascuno e stabilire il grado con cui si sarebbero raffermati. Il comando piemontese affermava infatti che gli ufficiali garibaldini avevano avuto le nomine con eccessiva facilità e senza la regolamentare anzianità. Figurarsi!, ragionavano; non hanno neanche fatto la scuola militare. Quasi che Calatafimi, Palermo, Milazzo, il Volturno non fossero stati una scuola d’eccezione. Così, di settemila che erano, appena due migliaia entrarono fra i regolari, e pochi conservando il grado. Fra gli altri Nino Bixio, generale di divisione a trentasette anni, Giuseppe Sirtori, Giacomo Medici ed Enrico Cosenz. Quest’ultimo diventerà poi capo di stato maggiore dell’esercito italiano. Particolarmente offensiva fu un’altra decisione piemontese: di offrire lo stesso trattamento agli ufficiali dell’esercito borbonico sconfitto, primo fra tutti il capo di stato maggiore generale Pianell. Ma intanto era cominciato nel Meridione il governo piemontese. Sicilia e Napoletano avevano già risposto di sì al plebiscito. In misura clamorosa: 432.053 sì, in Sicilia, contro 667 no. A Napoli i voti favorevoli furono 1.302.064, i contrari 10.312. In più di duecento comuni non ci fu neanche un voto negativo. In uno di essi i sì erano addirittura superiori al numero dei votanti. Alle urne non si andò in segreto, ciascuno deponeva la scheda alla presenza di tutti. La guardia nazionale andò a votare inquadrata recando cartelli che inneggiavano all’annessione. Insomma, ci fu palesemente l’imbroglio. Ma l’imbroglio maggiore stava nella formula del plebiscito. Diceva così: “Il popolo siciliano (o napoletano, o calabrese, a seconda del caso) vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale”. Proviamoci a immaginare per un istante di vivere un secolo fa, e di dover votare noi. Proviamoci a immaginare di aver votato no. Cosa significherebbe questo voto? Significherebbe nulla: non un ritorno sotto il Borbone, perché Francesco II non era più a Napoli. Non uno stato separato; non il governo di ‘don Peppino’, come adesso la gente chiamava Garibaldi, non l’autonomia nell’unità d’Italia. Non c’era scelta: o l’annessione al Piemonte o il vuoto politico. In altre parole: grazie alla politica del diabolico conte, l’Italia diventava una nazione con la conquista che il re di Sardegna aveva fatto di Lombardia, Toscana, Emilia e finalmente delle regioni meridionali, strappate a Garibaldi nel modo che abbiamo visto. Era la cosiddetta ‘politica del carciofo’: mangiare le foglie una per una. Adesso s’imponevano al sud leggi, istituzioni; persino costumanze piemontesi. Anzi, si faceva ai meridionali la concessione, il favore, di dar loro un governo “sano” e forte, di ripulire “le stalle di Augia”. L’espressione è di Massimo d’Azeglio. E di Massimo d’Azeglio è l’altra celeberrima frase: “Fatta l’Italia, ora bisogna fare gli italiani”. Forse non ci si è mai riflettuto abbastanza, ma la frase è molto ambigua. Fatta l’Italia, sì, ma grazie a chi? Bisogna fare gli italiani, d’accordo, ma a chi tocca, farli? Su quale modello? Appunto, sottintendeva d’Azeglio, sul modello piemontese. Anche, se necessario, con la forza. (...) Era naturale che questi atteggiamenti sprezzanti, tirannici e persino razzisti provocassero una reazione contro il Piemonte, e non da parte dei soli meridionali. Per esempio, un toscano che non era certo rivoluzionario, il barone Bettino Ricasoli (inventore del vino Chianti) affermava addirittura: “La stupida pedanteria e la laida burocrazia piemontese ci costringerà a una nuova rivoluzione per rigettarne quel giogo che mi è più antipatico di quello che mi fu l’austriaco. Non vogliono capire che vogliamo essere italiani e avere un’anima italiana e non automi alla maniera loro”. Ecco perché il Ricasoli voleva la capitale a Roma: perché negava il diritto di governare il nostro paese da Torino, una città periferica, francesizzante, provinciale, dove nobiltà e classe dirigente a malapena parlavano l’italiano (abbiamo visto spesso le lettere di Cavour in lingua francese) e persino il re era scarsamente italofono. Non si volle tenere alcun conto del desiderio d’una autonomia locale, anche se limitata (stiamo ancora cercando ai giorni nostri di darla, questa autonomia regionale). Si impose il servizio militare obbligatorio, si istituì il confino di polizia per gli indesiderabili, si limitò fortemente la libertà di stampa, si rispose a colpi di baionetta a un reparto di volontari calabresi che, dopo il congedo, chiedevano lavoro. Quegli stessi che avevano irriso il ‘malgoverno’ di Garibaldi, dovevano ora convenire di non saper risolvere, pur dopo finita la guerra, le difficoltà che aveva incontrato lui. Addirittura, si cominciava a temere che le genti del sud facessero un confronto fra la dittatura di guerra e il governo di pace, a tutto scapito del secondo. Lo dice, chiaro e tondo, il solito Cavour: “Non si tratta di questione di gabinetto, di crisi ministeriale, si tratta di salvare il paese da tremenda catastrofe. Se all’apertura delle Camere si potrà dire con qualche fondato motivo che Garibaldi governava l’Italia meridionale meglio di noi, siamo rovinati. Poco male se la rovina toccasse solo a noi; ma cadendo trasciniamo il partito moderato e lanciamo l’Italia nella china della rivoluzione”. (...) Cavour neanche fece il gesto di andare a Napoli e in Sicilia, continuava a comportarsi, nei riguardi di quelle regioni, sulla base dei rapporti che di laggiù gli mandavano i suoi tirapiedi. E i rapporti dicevano che, a dispetto di quel clamoroso plebiscito, in realtà nessuno voleva davvero l’Italia unita o, più precisamente, l’unione dell’Italia. “Un partito unitario costituzionale non esiste”, scrivevano dalla Sicilia. E da Napoli: “Non ci sono sette unitari in sette milioni di abitanti”. Sono parole dello stesso Farini. Il Pantaleoni largheggiava un poco: “Partito unitario a Napoli non esiste, oserei affermare che non vi hanno venti individui che desiderano unità, e questi sono degli emigrati, o han posti col governo unitario... Molti non san neppure chi sia Vittorio Emanuele”.(...) Il nuovo governo, col suo astratto e sciocco rigore, con la deliberata incomprensione dei bisogni del popolo, favoriva i vecchi ceti possidenti, ma neanche riusciva a guadagnarsene l’appoggio. Cominciavano già da allora a formarsi bande armate, che raccoglievano gli avanzi dell’esercito borbonico sconfitto. “A Napoli noi abbiamo scacciato il sovrano per istituire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti per contenere il regno, 60 battaglioni”. Sono parole del d’Azeglio, quello che voleva fare gli italiani. E voleva farli, appunto, con quei battaglioni, che non bastarono, proprio come a lui pareva. Ci vorrà una vera e propria guerra di riconquista, condotta con mezzi quasi identici a quelli con cui, dopo la prima guerra mondiale, l’Italia riconquistò la Libia. Molti allora gridarono al miracolo (abitudine che gli italiani non perdono mai, salvo poi pentirsene amaramente). L’anno del miracolo: politico, allora, economico, ai giorni nostri: ventidue milioni di italiani (tutti da rifare, secondo il d’Azeglio) che improvvisamente si univano a formare un sol regno. Ma fu un miracolo molto equivoco, che ci è costato cento anni di storia assai dolorosa, che potremmo riassumere in questi pochi eventi: guerra dei briganti, sommosse del ’66, convinzione radicata nel popolo che lo Stato sia oppressore, un’astratta entità ostile che si fa viva solo per esigere le tasse e mandarci a far la guerra, analfabetismo, mezzo milione di emigranti che ogni anno lasciano la ‘porca Italia’, sottile e perfido razzismo interno, per cui i “terroni” sarebbero cittadini di seconda categoria, la mafia mai sconfitta; una dittatura ventennale e una guerra disastrosamente combattuta e persa. Tutto ciò non potremmo spiegarcelo, se non ragionando che l’unità fu fatta male. Contro Garibaldi. ?