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 2018  settembre 07 Venerdì calendario

Biografia di Eusebio Di Francesco

Eusebio Di Francesco (Eusebio Luca D.F.), nato a Pescara l’8 settembre 1969 (49 anni). Allenatore. Attualmente, tecnico della Roma. Ex calciatore • «Era papà il grande tifoso di Eusebio. A casa mia, quando nacqui, ci fu una lotta tra mia madre e mio padre. Lui insisteva per la stella del Benfica, mia madre, più prosaicamente, voleva un nome “normale”. E fu così che io mi ritrovo con due nomi, mi chiamo Eusebio Luca. […] Il mio sport era il ciclismo. L’Abruzzo è terra di campioni come Taccone. Sappiamo faticare. Quando avevo tra i sei e i nove anni correvo per le “Frecce azzurre”. Però mi piaceva tanto anche giocare al calcio. C’era uno spiazzo grande, al paese, che noi facevamo diventare lo stadio dei sogni mettendo due bombole di gas, per fortuna vuote, a fare da pali. Allora passavano molte meno automobili di oggi, e noi potevamo fare le nostre partite in pace. Poi il tecnico della squadra di ciclismo mi pose di fronte ad un aut aut: o la bicicletta o il pallone. E io scelsi. E scelsi bene». «I miei, Arnaldo e Silvana, […] hanno un ristorante-albergo a Sambuceto; il Pescara ci va in ritiro. I miei fratelli, Maurizio, Walter e Serena, lavorano lì. Io ho servito ai tavoli fino ai 15 anni: dopo la scuola trovavo la divisa da cameriere già pronta. Non era un peso. È l’unico altro mestiere che avrei potuto fare: ho la terza media» (a Francesco Saverio Intorcia). «Non mi piaceva studiare: ho cambiato tre scuole prima di mollare in seconda ragioneria. Però, grazie ai tanti ritiri vissuti da calciatore, ho letto molti libri e mi posso considerare un autodidatta. La mia vera base culturale è aver assorbito come una spugna i valori forti e autentici che mi ha trasmesso la famiglia» (a Massimiliano Castellani). A calcio, già da piccolo «“ero davvero bravino, i più grandi volevano sempre che giocassi con loro: è un indicatore abbastanza infallibile… Poi mi venne a vedere un mediatore, che mi portò a sostenere un provino con l’Empoli. C’era il tecnico della prima squadra, Salvemini, a esaminarmi. E io feci una gran bella figura. Mi volevano a tutti i costi. Feci un provino anche con la Fiorentina. Ma avevo dato la parola all’Empoli, e la mantenni. Fui acquistato per dodici milioni e mezzo, a quei tempi una bella cifra per la squadra di un piccolo comune. E, per di più, fu stabilito che, se avessi fatto tre partite in prima squadra, al Sambuceto sarebbero andati altri dieci milioni. Grazie a quell’affare hanno potuto giocare diversi campionati dilettantistici”. […] Ricorda il giorno dell’esordio? “Mi allenavo con la prima squadra. Giocavamo a Torino con la Juventus, partita persa. E di brutto. Sul quattro a zero Salvemini fece entrare il mio amico Nicola Caccia – pensi che subentrò a Walter Mazzarri – e il sottoscritto. […] Io sono uno freddo, molto razionale, e non provai grande emozione. Ma i miei genitori sì: in famiglia fu un evento importante. Ero più felice per loro che per me. Avevano fatto grandi sforzi. E allora davvero era tutto difficile. Non c’erano tanti soldi in casa. Io ancora ricordo il mio primo maglione. Era rosso: lo comprammo, i miei ed io, con i soldi dei primi stipendi veri”» (Walter Veltroni). Nel 1991 «passa alla Lucchese, disputando 4 stagioni da titolare e mettendosi in luce. Viene acquistato dal Piacenza, che milita in Serie A, dove gioca due ottime stagioni, che lo portano ad essere visionato e conteso dalle squadre più importanti della massima serie. All’inizio della stagione 1997/1998 viene tesserato dalla Roma, con la quale raggiunge il miglior risultato della sua carriera, ovvero la vittoria del campionato 2000/2001. Con la Roma colleziona 168 presenze e 14 reti. Grazie a questo palcoscenico esordisce in Nazionale (collezionando 13 presenze) e disputa la Coppa Uefa. Termina la sua carriera passando nuovamente per Piacenza, poi per Ancona e infine al Perugia, dove conclude la sua carriera da calciatore nel 2005» (Fabrizio Cossu). «Di Francesco smette di giocare nel 2005, […] ma non ha in mente di allenare: “Non volevo proprio farlo. Da calciatore vedevo i miei tecnici, e non volevo essere nei loro panni. Ho fatto per un po’ il team manager nella Roma, ma non mi piaceva il ruolo, troppo marginale. Non mi lasciava niente”. Torna nella sua Pescara, dove gestisce uno stabilimento balneare. “Mi ha fatto solo che bene. Al calcio, non ci pensavo più, non mi interessava per niente. Non guardavo nemmeno i risultati alla domenica”. Poi, nel 2007, lo chiama il Val di Sangro: gli chiede una mano per il mercato. Il ruolo di consulente non lo fa impazzire: continua a farlo per sei mesi. Nel frattempo, si iscrive a un corso di allenatore che si tiene a Pescara, più per caso che per convinzione. “Ma mi è tornato il desiderio di campo”. La sua prima panchina, a Lanciano in Lega Pro, dura poco. Ma a inizio 2010 viene ingaggiato dal Pescara, che guida alla promozione in Serie B. Prima di una possibile affermazione, Di Francesco passa da due esoneri. Il primo a Lecce, nel 2011, alla sua prima esperienza in Serie A: ci rimane per 14 gare, ne vince appena due. C’è lui in panchina quando i salentini perdono 4-3 contro il Milan, dopo aver chiuso avanti di tre reti all’intervallo. E nemmeno la seconda volta in A, con il Sassuolo, ha vita facile. Comincia non vincendone nemmeno una nelle prime sette, poi, tra dicembre e gennaio, colleziona solo sconfitte, eccetto la vittoria sul Milan – quella dei quattro gol di Berardi – e un pareggio a Cagliari. Il 28 gennaio 2014 viene esonerato. “Rosicavo come una bestia. Ma l’ho presa in maniera positiva: ti metti in discussione nel modo giusto, ti guardi attorno e capisci dove hai sbagliato, così non rifarai gli stessi errori. Però, non ho mai pensato, né prima né dopo, di smettere di allenare. Quando parto, voglio sempre arrivare”. Il Sassuolo chiama Malesani, ma le cose non migliorano. Anzi, dopo cinque sconfitte su cinque, Di Francesco torna in panchina. […] “Non so se mi hanno richiamato perché ci credevano veramente o perché erano disperati (ridendo, nda). Io ci credevo. Quando sono tornato, ho messo dei paletti. Abbiamo cambiato approccio”. Nelle restanti 12 partite, il Sassuolo perde solo cinque volte. Si salverà. […] Di Francesco è entrato nella storia del Sassuolo soprattutto per la prima promozione della società in A: è il 18 maggio 2013, ultima giornata, un gol di Missiroli in pieno recupero piega il Livorno. I neroverdi chiudono al primo posto, ma il finale di campionato è tribolato: prima della vittoria sui toscani, il Sassuolo fallisce numerosi match point, non riuscendo a vincere per tre gare di fila. “Avevamo paura, come quella di uno studente a cui resta solo la tesi e teme di non arrivarci. Avevamo fatto un errore: dicevamo ‘si vince, si vince, si vince’. A chiacchiere. Poi i ragazzi hanno ammesso: ‘Mister, abbiamo paura di non arrivare’. Se non ce lo diciamo, come facciamo a farci forza l’un con l’altro? Abbiamo affrontato la situazione insieme. Prima della partita con il Livorno, mi arriva un messaggio di Stefano Borgonovo. Aveva capito la situazione: ‘Avete paura?’. Una persona nelle sue condizioni si preoccupava di noi. È stato un messaggio significativo. Abbiamo giocato una grande partita, la gioia di quel momento è indelebile”» (Francesco Paolo Giordano). «Nei cinque anni trascorsi a Sassuolo, oltre a essere rimasto nel massimo campionato nazionale, i neroverdi hanno conquistato prima la qualificazione ai preliminari, per poi partecipare all’Europa League nella stagione 2016/17. Inoltre, dichiaratamente discepolo di Zeman, nella sua esperienza in Emilia ha avuto modo di costruire una squadra comunque ampiamente competitiva, creando un modello di sviluppo basato sui giovani dei vivai nazionali. Tra questi, infatti, sicuramente il giocatore simbolo in assoluto è stato Domenico Berardi, attaccante cresciuto proprio in neroverde» (Arnaldo Figoni). Nel luglio 2017, dopo il passaggio di Spalletti alla panchina dell’Inter e la rescissione consensuale del contratto col Sassuolo, Di Francesco ha fatto ritorno alla Roma in veste di allenatore, riuscendo rapidamente a convincere squadra e tifosi grazie a risultati quali il terzo posto finale in classifica e soprattutto la difficilissima conquista della semifinale di Coppa dei Campioni. «Un’autentica impresa, quella compiuta dalla Roma targata Di Francesco, che ha eliminato la corazzata Barcellona dai quarti di finale della Champions League, ribaltando la pesante sconfitta di 4-1 rimediata all’andata. I giallorossi si sono imposti con un perentorio 3-0, disputando una partita praticamente perfetta e di grande cuore davanti ad uno stadio Olimpico gremito, che ha spinto la formazione capitolina all’impresa, contro i campioni stellari del calibro di Iniesta, Messi e Suárez» (Paolo Pierangelo). In virtù di ciò, nel maggio 2018 Di Francesco ha ricevuto il premio Enzo Bearzot quale miglior allenatore dell’anno, e qualche settimana dopo ha ottenuto il rinnovo del contratto con i giallorossi fino al 2020 • «Come sistema di gioco ho quasi sempre giocato con il 4-3-3. Preferisco la difesa a quattro, quella a tre l’ho adottata solo per necessità. Per poter crescere, ogni allenatore deve saper trasmettere la propria filosofia e il modo di allenare. Per me la difesa a quattro è alla base di questa Roma» • Sposato con Sandra Di Giandomenico, tre figli: Federico, Mattia e Luca. Il primogenito, Federico (classe 1994), è a propria volta calciatore di Serie A (dal 2016 al 2018 nel Bologna, ora nel Sassuolo), e ha quindi più volte indirettamente sfidato sul campo il padre, incontrando le squadre da lui allenate (il primo anno il Sassuolo, poi la Roma). «Mi fa ridere mio figlio, perché non mi dice mai se gioca, mi dice che hanno provato 6-7 moduli: è un gioco tra di noi. È sempre emozionante, è una cosa che mi inorgoglisce e mi fa piacere. Sono contento di quello che sta facendo e sono convinto che potrà fare anche meglio. Magari non con noi, però…». «Fin dagli inizi l’ho sempre trattato più da papà che da allenatore. Gli ho insegnato educazione, rispetto e passione» • «L’emozione più grande l’ho avuta a 29 anni con l’esordio in Nazionale ad Anfield: Galles-Italia. Vincemmo due a zero. E poi lo spareggio per rimanere in A contro il Cagliari, quando giocavo a Piacenza, nel giugno 1997. Per giocare rinunciai a una convocazione in Nazionale. Feci un’ottima prestazione» (a Vittorio Zincone). «"Devo molto a Zeman in termini di cultura sportiva e del lavoro, abnegazione, rispetto delle regole. Gli ho rubato qualche idea in attacco, ma non sono uno che scimmiotta. Quando lasciai Pescara, fui io a consigliare di prendere il mister al mio posto: era l’uomo giusto". La sua idea di calcio? "Far gol attraverso la verticalizzazione: odio il possesso sterile. E poi divertire gli altri divertendoci noi, a partire dagli allenamenti. […] Ai ragazzi provo a insegnare il rispetto per gli altri e l’importanza del dare. Sono stato in Kosovo con Tommasi, ho visto da vicino il male, la disperazione, l’egoismo della politica. Sono presidente di una onlus a Piacenza, organizziamo aste benefiche e iniziative nei Paesi poveri, dall’Etiopia al Sudamerica. Noi siamo dei privilegiati, eppure siamo sempre orientati su noi stessi. Troppo"» (Intorcia). «Mi piace emozionarmi per le gesta degli eroi. I numeri 10 mi hanno sempre affascinato. Da giocatore i migliori che ho incontrato sono stati Baggio, Zidane, Totti. Con Francesco ho un ottimo rapporto, ci sentiamo ancora. Oggi mi emoziono per i miei giocatori».