5 settembre 2018
Tags : Art Spiegelman
Biografia di Art Spiegelman
Art Spiegelman (alla
nascita Itzhak Avraham ben Zeev), nato a Stoccolma il 15 febbraio 1948 (poi
naturalizzato statunitense). Fumettista • Secondogenito di una coppia di ebrei polacchi sopravvissuti ai campi di
sterminio nazisti. L’esperienza segnò profondamente la famiglia: il fratello
maggiore, Rysio, nato nel 1937, morì nel 1943, ucciso per sottrarlo ai
rastrellamenti dalla zia cui era stato affidato; la madre morì suicida nel
1968, poco dopo il suicidio del suo unico fratello superstite • Nel 1951 emigrò con i genitori negli Stati
Uniti, e cambiò nome. «I miei genitori […] non erano molto assimilati alla
cultura americana. Vivevamo completamente isolati dal mondo intorno, ad esempio
non avevamo la tv, e l’unica mia finestra sulla realtà americana del tempo
erano i fumetti. Ho imparato a leggere con Batman. […] Da adolescente ho scoperto il sesso sulle pagine di Archie, ho imparato a conoscere il
denaro leggendo le storie di Zio Paperone…Poi è arrivato Mad Magazine, che mi ha insegnato
tutto quello che i mie genitori non potevano insegnarmi. A tal punto che credevo
che il titolo, Mad, fosse
l’acronimo di “Mum and Dad”, mamma e papà». «A quindici anni […] ero riuscito a
farmi pagare i miei primi lavori: mi ero procurato una collaborazione come
disegnatore freelance su una rivista
del Queens, The Long Island Post. Era una bella cosa; ricevere lo stipendio è
una bella cosa. E quando mi hanno dato un posto fisso alla Topps Bubble Gum mio
padre sembrava incredibilmente sollevato e avrebbe voluto che me lo tenessi per
tutta la vita. Mi hanno assunto per un lavoro estivo quando avevo diciotto
anni, e gira e rigira il rapporto è durato ventitré anni. […] Nel 1971 avevo
ventitré anni, e facevo parte di una grande comunità di fumettisti underground
concentrata a San Francisco, che si era formata alla fine degli anni Sessanta,
sulla scia di Zap Comix di R. Crumb. Un mio amico venne incaricato di mettere
insieme un libro a fumetti intitolato Funny
Animals. Io volevo realizzare qualcosa che avesse quel taglio pulp
melodrammatico, con tanto di ombre degli avvolgibili sui volti, dove però i
personaggi avessero sembianze animali, e il protagonista finisse stritolato da
una gigantesca trappola per topi che scatta e gli imprigiona il corpo. […] Non
sapevo di voler fare un libro sull’Olocausto. Se non altro per reazione
allergica alle mie origini ebraiche. Non so se arriverei a definirlo odio per
me stesso (anche se c’è gente che se l’è presa con Maus per la mia mancanza di zelo sionista), ma da piccolo mi
sembrava che essere ebreo non fosse proprio il massimo – avevo sentito che
uccidevano la gente per questo. Con Maus
sono in qualche modo uscito allo scoperto in quanto ebreo. […] Comunque sia,
l’impulso a lavorare su questo tema mi è stato finalmente chiaro solo mentre
ero all’opera. Non era nemmeno chiaro che agivo in base al mandato di mia
madre, che mi aveva chiesto di fare qualcosa con i suoi quaderni. Sono stati il
concime necessario al terreno, ma me ne sono reso conto solo molto tempo dopo».
Nacque così la prima idea di Maus,
che Spiegelman sviluppò poi tra il 1978 e il 1991 in uno dei più riusciti
esempi di «romanzo a fumetti», in cui, a partire dalle vicende familiari,
l’autore raccontò il genocidio ebraico, ambientando la storia a «Mauschwitz» e
imponendo ai nazisti la maschera di gatti e agli ebrei quella di topi. «Avevo
un registratore per le conversazioni con mio padre, poi ne facevo delle
trascrizioni, e quello è stato l’inizio del mio lavoro. Poi mi sono documentato
con fotografie d’epoca, con un viaggio in Polonia, con i disegni realizzati dai
prigionieri sopravvissuti ai campi di concentramento, e ho letto molto per
capire quello che mio padre aveva vissuto e mi aveva raccontato. E così ho
trovato la forma migliore da dare a tutto questo materiale» (ad Alfredo
Castelli e Laura Scarpa). Fu un successo clamoroso, che guadagnò all’autore
riconoscimenti e tributi internazionali, tra cui un’esposizione al Moma di New
York e uno speciale premio Pulitzer nel 1992, e nobilitò l’arte del fumetto,
conferendole dignità letteraria anche agli occhi della critica più severa. Nel
1992 Spiegelman iniziò a collaborare con il New Yorker, per cui disegnò
copertine fino a fine 2002, quando decise di non rinnovare il contratto: «La
rivista che ho cercato così a lungo di considerare la mia casa era
semplicemente troppo conservatrice, dal punto di vista politico ed estetico,
per permettermi di fare il tipo di lavoro che avevo in mente. Al momento
giusto, Michael Naumann, un amico diventato direttore del quotidiano tedesco
Die Zeit, m’invitò a disegnare per lui una serie di fumetti a colori su pagina
tradizionale… senza supervisione editoriale, se era ciò di cui avevo bisogno!
Era un’offerta che non potevo rifiutare». Ne nacque la serie In the Shadow of No Towers, raccolta poi
in volume e pubblicata in Italia da Einaudi nel 2004 con il titolo L’ombra delle Torri. A lungo insegnante
della School of Visual Arts di New York, attualmente Spiegelman si occupa
soprattutto di editoria insieme alla moglie François Mouly: con lei, tra
l’altro, nel 1980 fondò la rivista Raw (che durò fino al 1991, e ospitò le puntate
di Maus), e tra il 2000 e il 2003
curò l’antologia di fumetti per bambini Little
Lit (pubblicata in Italia da Mondadori) • Due figli dalla Mouly: Nadja Rachel (scrittrice) e Dashiell Alan • È tra i maggiori
detrattori de La vita è bella di
Benigni, «un’idea cretina, buona al massimo per una cartolina d’auguri».
Strenuo difensore della libertà di parola, in seguito all’attentato
terroristico contro la redazione di Charlie Hebdo (7 gennaio 2015) espresse la
propria solidarietà incondizionata al giornale satirico, stigmatizzando ogni
atteggiamento di riserva e di autocensura (egli stesso inviò al settimanale
britannico New Statesman una caricatura di Maometto, vedendosela rifiutare) •
«I cosiddetti “fumetti” sono proprio questo: un ponte. Sanno coniugare il
linguaggio dell’immagine e il linguaggio del testo e permettono al lettore di
arrampicarsi fin dentro l’anima e la testa dell’altro. Puoi capire la
situazione, puoi osservare una persona mentre parla e agisce in quella
situazione e, al tempo stesso, metterti nella sua posizione, vedere il mondo
con i suoi occhi. Trovo che questo sia straordinario» (a Marco Dotti).