5 settembre 2018
Tags : Roberto Maroni
Biografia di Roberto Maroni
Roberto Maroni, nato a Varese il 15 marzo 1955 (63 anni). Politico. Attualmente, presidente della Regione Lombardia (dal 18 marzo 2013, e fino all’insediamento del presidente eletto Attilio Fontana). Già segretario federale della Lega Nord (2012-2013), deputato (1992-2013), vicepresidente del Consiglio (1994-1995), ministro dell’Interno (1994-1995; 2008-2011) e ministro del Lavoro (2001-2006). «Se Bossi è il papà della Lega, io ne sono la mamma» • Figlio di una commerciante (proprietaria di un negozio di alimentari) e di un bancario, trascorse infanzia e giovinezza a Lozza, paese di un migliaio di anime del varesotto «dove vivo oggi e dove sono vissuti i miei antenati, che, secondo i registri della parrocchia, furono tutti contadini. […] Io sono quello che ha esagerato un po’» (ad Andrea Radic). Concluso il liceo classico, s’iscrisse a Giurisprudenza. «Ma gli era rimasta la scintilla della politica. A 16 anni, nel 1971, aveva militato in un gruppo marxista-leninista e frequentato Democrazia proletaria. Fino al 1979, l’anno della folgorazione: Maroni conosce Bossi e inizia una “collaborazione politica”, come racconterà l’Umberto» (Gianni Barbacetto e Davide Vecchi). «Ero un giovane neolaureato che votava Democrazia proletaria. Un mio amico mi disse che c’era un tipo interessante da conoscere. Mi trovai una sera nella sua casa di Capolago, frazione di Varese. Lui [Bossi – ndr] parlava di autonomie, federalismo. Io pensavo: “Questo è matto. Sto perdendo tempo”. Ma poi disse che voleva fondare una rivista [poi chiamata Nord-Ovest – ndr]. Mi proposi e nacque il sodalizio. Rivendicavamo l’autonomia per la regione dei laghi. Non vendemmo una copia. Nel 1980 il primo comizio, a Como. Cinque spettatori: due curiosi, due poliziotti e un fascista del Msi, che fece finta di avvicinarsi a Umberto per stringergli la mano e gli diede un cazzotto. Bossi, che è bello robusto, reagì. A quei tempi io non dicevo niente. Il mio esordio su un palco leghista è nel ‘90. Mi preparai per una settimana. Schemi, schemini, introduzione a, b, c… […] Dopo 5 minuti che parlavo, la gente cominciò a guardarsi intorno. Dopo 10, erano visibilmente perplessi. Dopo un quarto d’ora si alza uno della mia sezione e fa: “Scusa, Maroni… posso?”. “Ma, veramente…”. E lui, urlando: “Mandiamo a casa i terroni!”» (a Vittorio Zincone). Nei primi anni del sodalizio con Bossi, «l’attività principale era andare nottetempo a spennellare sui cavalcavia gli slogan dei cosiddetti lumbard, cioè loro due, più Giuseppe Leoni, Francesco Speroni e qualche parente. La cosa avveniva così. Tra le urla della mamma, Bobo prendeva l’auto di famiglia, caricava Umberto con i secchi di vernice e via sull’autostrada. Al primo cavalcavia, Bossi scendeva con gli attrezzi e iniziava, nell’oscurità, a dipingere il Sole delle Alpi. Bobo, per non farsi beccare dalla stradale, filava via, usciva al primo casello, tornava indietro, riprendeva Bossi e lo scaricava al cavalcavia successivo. Così fino all’alba. […] Tra queste avventure, Bobo era diventato avvocato e manager legale della Avon, la multinazionale Usa della cosmesi. […] Lasciata l’avvocatura per la politica, nel 1992 divenne deputato. Nel 1994, a 39 anni, fu ministro dell’Interno nel primo governo Berlusconi. Quando Bossi fece il ribaltone tradendo il Cav., Bobo, che al Viminale si trovava bene, si arrabbiò col capo. Per un po’, tenne il punto. Ma, troppo debole per camminare da solo, tornò presto all’ovile, la coda tra le gambe. Fu messo alla prova. […] Quando la magistratura reagì mandando gli agenti a perquisire la sede leghista di via Bellerio, Maroni si avventò su di loro. Nel parapiglia si vide, per la prima volta al mondo, un ex ministro di polizia addentare il polpaccio di un poliziotto. Bobo ne ebbe due conseguenze: il naso rotto e una condanna a otto mesi, ridotta a quattro in appello, per resistenza e oltraggio. Negli anni Duemila, Maroni fu un signor ministro nei governi del Cav. Prima del Lavoro, poi di nuovo dell’Interno, contribuendo a migliorare l’immagine boscimane della Lega. Ma quegli anni sono gli stessi della caduta in disgrazia presso Bossi e della catena di eventi che l’hanno portato alla segreteria. Tutto parte dall’ictus dell’11 marzo 2004. Fragile e non più autonomo, Umberto fu preso in consegna dalla moglie, Manuela, e dai suoi fiduciari, riuniti nella combriccola del cerchio magico. Bobo, considerato fin lì l’erede, ne fu escluso proprio per questo. […] Poi, passò al contrattacco. Il Viminale è il posto giusto per influenzare la vita degli enti locali. È da quel seggio che Bobo ha conquistato i sindaci del Nord che sono il nerbo della Lega. Così, in tre anni, l’80 per cento del partito è passato con lui e ha iniziato a considerare Bossi un vecchio arnese» (Giancarlo Perna). Al culmine del conflitto tra i cosiddetti «barbari sognanti» maroniani e il «cerchio magico» bossiano, a determinare la svolta fu lo scandalo relativo ai rimborsi elettorali del partito, che travolse personalmente il vecchio capo carismatico della Lega: il 5 aprile 2012 Bossi finì per dimettersi, e il 1° luglio successivo Maroni, divenuto l’uomo-simbolo del rinnovamento e della riscossa identitaria («Pulizia, pulizia e pulizia, senza guardare in faccia a nessuno»), fu eletto nuovo segretario. Nell’arco di pochi mesi riuscì a far recuperare credibilità e consensi alla Lega, tanto da farle ottenere, nella tornata elettorale del febbraio 2013, oltre il 4% dei voti alle Politiche (risultato lusinghiero, rispetto ai sondaggi iniziali) e la presidenza della Regione Lombardia, conquistata da Maroni stesso sul candidato del centrosinistra Umberto Ambrosoli, a lungo dato per favorito. Pochi mesi dopo si dimise, come precedentemente annunciato, dalla segreteria del partito, che passò quindi, in seguito a elezioni primarie, a Matteo Salvini. Negli anni successivi, i rapporti tra governatore e segretario si sono sempre più logorati, soprattutto a causa del protagonismo del nuovo leader leghista e del suo progressivo distacco nei confronti della questione settentrionale: le differenze sono divenute particolarmente evidenti in occasione del referendum consultivo per una maggiore autonomia della Lombardia, fortemente sostenuto da Maroni e quasi completamente ignorato da Salvini, anche in seguito alla vittoria conseguita dal fronte autonomista (con oltre il 96% dei «sì», sia pure a fronte di un’affluenza di poco superiore al 38% degli aventi diritto). Quando poi, nel gennaio 2018, Maroni ha annunciato la sua decisione di non ricandidarsi «per motivi personali» alle imminenti elezioni regionali, dando adito a illazioni circa le sue effettive ambizioni, la fredda e sprezzante reazione del segretario ha indotto il governatore uscente a esplicitare il proprio pensiero: «Io sono un leninista convinto, uno che crede nella leadership, ma […] non posso sopportare di essere trattato con metodi stalinisti e di diventare un bersaglio mediatico solo perché a detta di qualcuno potrei essere un rischio. Consiglierei al mio segretario non solo di ricordare che fine ha fatto Stalin e che fine ha fatto Lenin, ma anche di rileggersi un vecchio testo di Lenin. Ricordate? L’estremismo è la malattia infantile del comunismo. Se solo volessimo aggiornarlo ai nostri giorni, dovremmo dire che l’estremismo è la malattia infantile della politica» • Grande passione per la musica: da oltre trent’anni suona l’organo Hammond nel gruppo musicale Distretto 51. Altrettanto radicata la passione per il Milan: «Amo il Milan a prescindere… Non sono tifoso, sono fazioso del Milan» • Sposato con Emilia Macchi, figlia del fondatore della Aermacchi, conosciuta in quarta ginnasio; tre figli («Non fanno e non faranno mai politica. Tenerli lontano dai riflettori, per me, è una priorità») • «Io e Bossi eravamo una coppia perfetta, lui stratega io tattico, come in barca a vela: lui tracciava la linea e poi mi diceva “pensaci tu”, e io mi muovevo in base alle onde e ai venti, cercando di capire cosa si dovesse fare per non uscire sconfitti. Sono stato un buon ministro, ma per restare a galla nei momenti più bui è stato fondamentale il mio rapporto personale con Bossi» (a Pietro Senaldi). «Sovranismo? Per me la sovranità appartiene al popolo, e in questo senso basta essere democratici per essere sovranisti. Se invece “sovranismo” significa nazionalismo e quindi centralismo, da buon leghista dico “no, grazie”. Per il resto, credo che “sovranismo” sia una definizione in cerca d’autore: si cerca un termine nuovo ora che la Le Pen ha dichiarato morto il lepenismo».