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 2018  settembre 05 Mercoledì calendario

Biografia di Mario Vargas Llosa

Mario Vargas Llosa (Jorge Pedro Mario V.L.), nato ad Arequipa (Perù) il 28 marzo 1936 (82 anni). Scrittore. Drammaturgo. Premio Nobel per la Letteratura nel 2010. «Senza illudersi rispetto agli enormi problemi, è preferibile avere dei governi democratici, per quanto corrotti, che le dittature, sempre corrotte ma in più brutali e sanguinarie. È preferibile rinunciare all’utopia sociale se ha solo portato guerre civili, repressioni brutali e governi dittatoriali. E abbiamo anche la letteratura, che è il modo migliore per mantenere viva la speranza, il pensiero critico. La letteratura ci salva» (a Juan Cruz) • Abbandonata dal marito al quinto mese di gravidanza, qualche mese dopo aver partorito la madre si trasferì insieme al figlio e alla famiglia d’origine in Bolivia, dove Vargas Llosa crebbe fino all’età di dieci anni, convinto che il padre fosse morto. Nel 1946 però i genitori si riconciliarono, la famiglia tornò in Perù e presto il ragazzo, che con il padre aveva instaurato un rapporto fortemente conflittuale, fu chiuso in un collegio militare. Seguì il periodo universitario, trascorso tra Lima e Madrid, e quindi, nei primi anni Sessanta, un lungo e fecondo soggiorno a Parigi. Nella capitale francese concluse il suo primo romanzo, La città e i cani (1963), in cui è descritta la vita all’interno di un collegio militare, «un posto in cui dominava il machismo e dove si esaltavano la forza della virilità e un patriottismo autoritario, violento. Ciò che ho narrato riflette in qualche maniera la mia esperienza personale. Da adolescente avevo trascorso lì due anni infernali. In questo libro come in quelli che seguirono, La casa verde e Conversazione nella Cattedrale, volevo mostrare come una dittatura entra nella vita della gente, come permea la società e condiziona la vita di tutti [tra il 1948 e il 1956 il Perù era stato dominato dal presidente Manuel Arturo Odría, di fatto un dittatore militare – ndr]. Ho raccontato l’emarginazione e le ingiustizie di quel mondo» (a Raffaella De Santis). Nel frattempo, alla fine degli anni Sessanta, Vargas Llosa si era trasferito a Londra, dove, per mantenere la famiglia, aveva temporaneamente smesso di scrivere per dedicarsi all’insegnamento. «Insegnavo letteratura al King’s College, poi un giorno Carmen Balcells, la grande agente letteraria, mi ha convinto a trasferirmi a Barcellona. Carmen era una persona straordinaria ma molto autoritaria. Per persuadermi a lasciare l’insegnamento universitario e dedicarmi esclusivamente alla scrittura ha proposto di pagarmi. Accettai, ma non ce ne fu bisogno, perché riuscii a farcela grazie ai diritti d’autore». Tra i suoi romanzi più importanti degli anni successivi, oltre a Conversazioni nella Cattedrale (1969), Pantaleón e le visitatrici (1973), La zia Julia e lo scribacchino (1977), La guerra della fine del mondo (1981) e La festa del caprone (2000), questi ultimi spesso considerati i suoi due capolavori. Nel 2010, a sorpresa, la consacrazione del premio Nobel per la letteratura, «per la sua cartografia delle strutture del potere e per le acute immagini della resistenza, rivolta e sconfitta dell’individuo». Lo scrittore accolse la notizia con incredulità: «Io ho sempre avuto poche certezze, ma di una cosa ero sicuro: che non lo avrei mai avuto. Pensavo di non essere compatibile con quel premio, perché sono del Terzo mondo e non sono di sinistra. Di tanto in tanto, il Nobel può andare a un autore del Terzo mondo, ma non a uno di destra, o meglio liberale, parola bandita dai circoli progressisti. Perciò mi consideravo fuori gioco. E invece, alle cinque e mezza di mattina, […] prendo la cornetta e sento brusii, interferenze. Non si capiva niente, ma in mezzo a tanti disturbi, colgo le parole “Swedish Academy”. A quel punto cade la linea. […] Il telefono suona di nuovo, e il segretario perpetuo dell’Accademia mi annuncia la vittoria. […] In quel momento mi dico: aspettiamo, non sarà mica uno scherzo come quello che fecero a Moravia?» (a Valerio Magrelli). Negli ultimi anni sono stati pubblicati i romanzi Il sogno del Celta (2010), L’eroe discreto (2013) e Crocevia (2016). Vargas Llosa è però anche autore di numerosi saggi politici e letterari, drammi teatrali, racconti e articoli di giornale • Inizialmente marxista e convinto sostenitore di Fidel Castro, si distaccò sempre più dal comunismo in seguito alla repressione della Primavera di Praga (1968), fino ad approdare a posizioni schiettamente liberali. Alle elezioni presidenziali peruviane del 1990 si candidò alla testa di una formazione liberale contro Alberto Fujimori, ma fu sconfitto, e precipitò in una profonda crisi personale. Ne uscì scrivendo un libro autobiografico, Il pesce nell’acqua (1993), incentrato sul periodo della sua formazione giovanile e sulla sfida elettorale che l’aveva visto protagonista: «Volevo togliermi di dosso quell’esperienza. Uno scrittore ha il vantaggio di poter trasformare un fallimento in materia letteraria, e questo è un sollievo. La scrittura è una vendetta, una rivincita sulla vita». Nel 1993 ha chiesto e ottenuto la cittadinanza spagnola, senza rinunciare a quella peruviana; l’anno successivo è stato eletto membro della Real Accademia Spagnola • Vita sentimentale romanzesca: prima il matrimonio con una zia (la protagonista del romanzo La zia Julia e lo scribacchino), quindi il secondo matrimonio con una cugina, dalla quale ha avuto tre figli (tra cui il saggista Álvaro Vargas Llosa) e con la quale è rimasto cinquant’anni, per poi lasciarla, poche settimane dopo il festeggiamento delle nozze d’oro, per la filippina Isabel Preysler (classe 1951), ex modella ed ex moglie di Julio Iglesias • «Nessuno oggi ha scritto un tale numero di capolavori e di una tale varietà (commedia, epica, tragedia, farsa, avventura, storia d’amore, opera-mondo, giallo). Per non parlare della tecnica, anzi delle tecniche. Vargas Llosa le conosce tutte e le adopera da gran virtuoso. […] Vargas Llosa va letto come Flaubert, Stendhal, Tolstoj, Cervantes. È uno di loro, uno dei grandi classici (ne ha la potenza, l’inesauribilità)» (Antonio D’Orrico) • «Flaubert mi ha insegnato che il talento significa disciplina tenace e grande pazienza; Faulkner che è la forma – la scrittura e la struttura – ciò che esalta o impoverisce le trame. Martorell, Cervantes, Dickens, Balzac, Tolstoj, Conrad, Thomas Mann che il ritmo e l’ambizione sono importanti in un romanzo quanto l’abilità stilistica e la strategia narrativa; Sartre che le parole sono azioni e che un romanzo, un’opera teatrale, un saggio, legati all’attualità e a più alti obiettivi, possono cambiare la storia; Camus e Orwell che una letteratura priva di morale è inumana, e Malraux che l’eroismo e l’epica sono presenti nell’attualità così come al tempo degli Argonauti, dell’Odissea e dell’Iliade». «La realtà dev’essere il punto di partenza, non d’arrivo. Senza una rottura con il contingente, la letteratura non raggiunge la sua indipendenza e, quindi, la sua sovranità. Anche se bisogna fare in modo di non cadere nell’astrazione, altrimenti i lettori non si identificherebbero, non si riconoscerebbero nei personaggi. Per sintetizzare, direi che occorre instaurare tra i due mondi una relazione dialettica, perché la letteratura non è lo specchio della nostra vita, ma ci dà ciò che la vita di tutti i giorni ci nega». «Grazie al fatto che mio padre mi mise in un collegio militare, grazie al fatto che mi impedì, a volte con accanimento, di essere uno scrittore, ho avuto un’esperienza che mi ha dato l’opportunità di scrivere con un grande materiale letterario. Se non fosse successo, probabilmente non sarei stato uno scrittore. Sì, scrivere è un piacere, ti permette di uscire da qualsiasi circostanza terribile, ti porta a difenderti da qualsiasi avversità. In questo senso scrivere è “il mio paradiso”».