5 settembre 2018
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Biografia di Fernando Botero
Fernando Botero (Fernando Botero Angulo), nato a Medellín (Colombia) il 19 aprile 1932 (86 anni). Pittore. Scultore. Disegnatore. «Io non dipingo donne grasse. Nessuno ci crederà, ma è vero. Ciò che io dipingo sono volumi. Quando dipingo una natura morta, dipingo sempre un volume; lo stesso vale per un paesaggio. Sono interessato al volume, alla sensualità della forma. Se io dipingo una donna, un uomo, un cane o un cavallo, ho sempre quest’idea del volume, e non ho affatto un’ossessione per le donne grasse». «I miei lavori non si prestano a interpretazioni. Li guardi e li capisci» •«Persi papà a 4 anni. Saliva sul suo mulo e andava in giro per le Ande a vendere mercanzia. Stava lontano da casa anche 20 giorni filati. Una vita dura. Come quella di mia madre, che si ritrovò vedova con tre figli. È stata una fase estremamente difficile» (a Piera Anna Franini). «Quando era ancora adolescente, […] Fernandito andava a scuola di tauromachia, per desiderio e passione di uno zio che gli faceva da padre. […] Erano quindici aspiranti toreri, anzi aspiranti matadores, come buona parte dei ragazzi colombiani della sua età. Il fatto è dunque che un toro riuscì a liberarsi dal locale macello, che riuscì a scappare in piazza, che l’insegnante di tauromachia pensò che fosse un’occasione per sperimentare in vivo le arti che aveva insegnato ai ragazzi. Solo che, racconta con una fragorosa risata Fernando Botero, uno solo se la sentì di affrontare quel toro così vero. Quattordici scapparono a gambe levate, e tra quei quattordici c’era lui, che quel giorno capì la sua vera vocazione: meglio gli acquarelli» (Irene Bignardi). «Ho cominciato a dipingere paesaggi e nature morte ad acquerello verso i 13 o 14 anni, e la mia vocazione è andata manifestandosi con una forza sempre maggiore. La città non offriva molte possibilità culturali. Ciononostante, vi era un gruppo di pittori locali, anch’essi senza molte risorse, che si riuniva ogni sera in un caffè del centro a parlare di pittura. Io ho avuto molta fortuna a poter contare sulla loro amicizia, benché fossero più vecchi di me. Quando avevo 18 anni ero già un pittore professionista, facevo solo i miei quadri e mi guadagnavo da vivere come illustratore di una pubblicazione culturale di El Colombiano, il quotidiano locale. A 19 anni, nel 1951, ho realizzato la mia prima esposizione personale a Bogotá, la capitale» (a Daniela Magnetti). Poco dopo, grazie a un premio in denaro vinto a un concorso per giovani pittori colombiani, giunse in Europa, dapprima a Barcellona e poi a Madrid – dove passò molto tempo al Museo del Prado, a copiare le opere di Tiziano, Velázquez e Goya –, quindi, dopo un periodo parigino trascorso soprattutto al Louvre, a Firenze. «La mia “scuola” furono i musei: ogni giorno andavo a studiare le tecniche del colore usate da Masaccio, Piero della Francesca, Andrea Mantegna. Rimanevo per ore seduto davanti a quadri e affreschi del Rinascimento. E poi adoravo i macchiaioli, e Giovanni Fattori. Sono un autodidatta, piazzavo il cavalletto davanti a Palazzo Vecchio e dipingevo» (a Luca Bergamin). «“Fu uno choc culturale, anche se avevo incominciato a visitare il Paese molto prima, quand’ero studente in Spagna e avevo sfogliato la Storia dell’arte italianadel Venturi, il libro che mi ha cambiato la vita – diversamente sarei rimasto a Parigi, che all’epoca era il sogno di tutti gli artisti”. In Francia ci sarebbe andato più tardi, dopo quattordici anni vissuti a New York. “Il periodo più difficile della mia vita”, sospira. “A Manhattan, un artista figurativo era come un lebbroso, in quegli anni in cui trionfava l’espressionismo astratto di De Kooning e Franz Kline. Io, con le mie fortissime convinzioni sulla pittura, non trovai una sola galleria disposta a esporre le mie opere, mi scontrai con una totale indifferenza del pubblico. Fu durissima anche dal punto di vista economico. Un giorno bussò al mio studio un mercante d’arte che aveva una galleria accanto al Moma. ‘Ti do dieci dollari per ogni tela’, disse. Ce n’erano in giro una settantina; settecento dollari erano una fortuna per me. Anche in quegli anni difficili rimasi fedele al principio che la grande arte deve essere figurativa”. […] Quasi non riusciva a crederci, quando, nel 1966, ricevette la telefonata dal Milwaukee Art Museum. “Era la prima volta che in America avevo un riconoscimento. Ma fu la Germania il Paese che abbracciò con entusiasmo le mie opere, dal 1970, quando scoprirono un mio quadro alla Carnegie International (l’annuale mercato d’arte che ha svelato Magritte e Pollock, Giacometti e Warhol, ndr) e m’invitarono per cinque mostre in musei tedeschi. A quel punto gallerie e mercanti, anche americani, fecero a gara per avere i miei quadri”» (Giuseppe Videtti). Fu allora che esplose per Botero il successo – di pubblico più che di critica – che l’avrebbe portato nei decenni successivi a diventare uno degli artisti più celebri, quotati e ricchi del mondo. Dalla metà degli anni Settanta si dedica anche alla scultura, soprattutto a Pietrasanta, in Versilia, dove, anche grazie alla presenza in zona delle migliori fonderie e cave di marmo, prese casa nei primi anni Ottanta, per poi soggiornarvi a lavorare ogni estate •Il primo soggetto che Botero ritrasse «dilatato» fu un mandolino, nel 1956. «L’artista stava dipingendo uno studio per una natura morta (poi divenuta nota come Natura morta con mandolino), e aveva però raffigurato il foro di risonanza dello strumento in proporzioni decisamente più piccole rispetto al normale, con la conseguenza che il mandolino risultava molto più tozzo e allargato rispetto a un mandolino raffigurato con il foro nelle proporzioni corrette. L’artista fu allo stesso tempo colpito e visceralmente attratto da questa forma dilatata oltre il naturale, perché gli evocava una profonda sensualità. Dopo aver dunque “dilatato” il mandolino, Botero trovò il suo stile, e iniziò a dilatare le forme di altri oggetti, di animali, di esseri umani, conferendo a tutti quell’aspetto “grasso” che costituisce un po’ il suo marchio di fabbrica» (Federico Giannini e Ilaria Baratta) •«Botero ha anche raffigurato i drammi e le tragedie dei singoli e dei popoli. Memore di Goya, ha denunciato con 80 opere gli orrori e le torture del carcere di Abu Ghraib (Iraq). Anche i 27 oli della sua Via Crucisrievocano le sofferenze del giusto nella indifferenza e stupidità delle masse. Senza dubbio, una pittura diversa dalla sua precedente. Botero la mette al servizio della denuncia sociale, ma non cade nelle trappole del moralismo e delle ideologie. Anche quando raffigura gli aspetti più negativi della vita, l’arte, se arte è davvero, offre sempre una consolazione» (Gianfranco Morra) •«Ormai non posseggo quasi più alcuna opera: ne ho donate duecento – tra opere mie e capolavori che ho collezionato – al Museo di Bogotá che porta il mio nome. Ho posto come condizione al governo che l’ingresso fosse gratuito per l’eternità» (a Luca Bergamin) • Tre figli dalla prima moglie e un altro dalla seconda, Pedrito, rimasto ucciso nel 1979 a cinque anni in un incidente stradale (il padre raffigurò la tragedia in un dipinto poi donato a un museo di Medellín, «forse il quadro più importante che abbia mai fatto nella mia vita»). Attualmente è al terzo matrimonio, con l’artista Sophia Vari, «bellissima e magrissima» •«Nella sua pittura l’esagerazione scatta da un’inquietudine estetica, e svolge una funzione stilistica. Botero è un pittore figurativo, ma non è un pittore realista. Le sue figure sono ancorate alla realtà, ma non la rappresentano» (il critico Mariana Hanstein) •«La bellezza nell’arte non ha niente a che vedere con quella della vita reale. L’arte tende a deformare. Sono due tipi di bellezza diversi. Più la bellezza del mondo concreto entra nell’arte, più l’arte diventa superficiale. Se uno prende una modella fascinosa e le fa un ritratto, il quadro è stupido. Le grandi bellezze dell’arte nella vita reale non erano affatto belle, anzi». «Amo l’arte egiziana, assira e Piero della Francesca. Nella pittura antica il soggetto non si rivolge mai a chi guarda. E lo stesso fa Piero della Francesca. Mi piace molto questo modo di ritrarre lo sguardo, e lo adotto anche nei miei quadri» (a Matteo Parigi Bini). «La mia pittura ha due fonti primordiali: da una parte ci sono le mie idee estetiche, dall’altra il mondo latinoamericano nel quale sono cresciuto. Penso inoltre che la sensualità sia la fonte principale del piacere e costituisca il contributo dell’artista alla realtà. Ho provato a vedere le immagini della mia infanzia, i paesini della Colombia, la loro gente, i loro generali e vescovi, attraverso il prisma dei miei princìpi artistici, e questo è ciò che fa uno stile». «Bisogna descrivere qualcosa di molto locale, di molto circoscritto, qualcosa che si conosce benissimo, per poter essere capiti da tutti. Io mi sono convinto che devo essere parrocchiale, nel senso di profondamente, religiosamente legato alla mia realtà, per poter essere universale» (a Daniela Magnetti).