5 settembre 2018
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Biografia di Bob Dylan
Bob Dylan (Robert Allen Zimmerman), nato a Duluth (Minnesota) il 14 maggio 1941 (77 anni). Cantautore. Compositore. Premio Nobel per la letteratura nel 2016. Oltre 100 milioni di dischi venduti • «Sono nato a Duluth, città industriale, moli navali, grandi silos per il grano, scambi ferroviari. Nebbia spessa, marinai, tempeste, bufere di neve. Mia madre racconta di razionamenti di cibo, elettricità tagliata, mancanza di riscaldamento. Era un posto buio, anche in pieno giorno, tra coprifuoco, depressione, solitudine: ci abbiamo vissuto fino ai miei cinque anni, fino alla fine della guerra». «Hibbing è una piccola cittadina del Minnesota. […] La famiglia Zimmerman, ebrei di origine lituana emigrati negli States dopo i pogrom dei primi anni del Novecento, si trasferì qui esattamente nel 1948. […] È qui, infatti, che Robert Allen Zimmerman […] iniziò a strimpellare il piano e poi anche la chitarra acustica. È qui che il piccolo Robert passava ore e ore ad ascoltare i suoi musicisti preferiti, Hank Williams, Woody Guthrie, Muddy Waters o Elvis Presley, che gridavano al mondo i loro anatemi rock and roll o le loro melodie country. […] “Quando avevo dieci anni ho trovato una chitarra, nella casa che aveva comprato mio padre, e ho trovato anche qualcos’altro lì dentro, qualcosa di mistico: c’era una grande radio di mogano con un giradischi, un settantotto giri. Un giorno l’ho aperta, e c’era dentro un disco: Too Far From the Shore, dei Drifiting. Il suono di quel disco mi ha fatto sentire come se fossi stato qualcun altro e che forse non ero nemmeno nato dai giusti genitori”, racconta Dylan. […] Gli anni al liceo di Hibbing passarono presto, e Robert formò diversi gruppi, i più dei quali senza troppa storia, a dire il vero. […] A un certo punto, quando aveva vent’anni, Robert incontrò un vate, una guida per la sua ispirazione: si tratta di Woody Guthrie. “Non riuscivo a credere a quello che faceva questo tizio, lo potevi ascoltare per ore e alla fine ti insegnava a vivere”. […] Studente brillante, ma non dotatissimo, e non certamente portato per lo studio a oltranza, il giovane di Duluth a un certo punto prende una decisione secca e si trasferisce a New York. […] C’è un altro incontro che decide la vita del giovane folk singer, quello con Joan Baez, che diventa una sua collega, amica e qualche volta amante. […] Poi, […] il Greenwich Village, nel Lower West Side di Manhattan, il quartiere in cui già dalla fine degli anni Cinquanta potevi trovare più pub, caffè, bar, discoteche, sale da ballo e strip club che in ogni altra parte d’America. […] È qui che il cantautore inizia ad esibirsi con il suo repertorio di ballate folk rivisitate, blues e suoi pezzi originali. È sempre qui che incontra gente come Fred Neil, con cui suona al “Wha?”, oppure Dave Van Ronk o Ramblin’ Jack Elliott, con cui si esibisce al Mills Tower, al Village Gate e al Gaslight. […] Poi Bob incontra Dino Valente e suona con lui al Gaslight, e con lui andrà anche una volta a visitare il suo maestro Woody, che morirà nel 1967. Da quel momento in poi, il menestrello di Duluth iniziò la sua carriera discografica vera e propria, con il primo disco, Bob Dylan, del 1962, che conteneva un paio di canzoni originali tra cui Song to Woody, dedicata a Guthrie; per il resto, si trattava di cover e riadattamenti. […] I successivi The Freewheelin’ Bob Dylan (1963) e The Times They Are a-Changin’ (1964), invece, sono dischi che contengono alcuni dei suoi più grandi capolavori» (Andrea Holzer). «Dylan […] si è trovato a esprimere il suo talento in un momento cruciale dello sviluppo della cultura di massa, nei primi anni Sessanta, quando ancora nessuno credeva davvero che la canzone potesse essere qualcosa di più che intrattenimento, magari nobile, ma pur sempre intrattenimento. Dylan sì, ci credette, cominciò a trasformare il linguaggio del suo amato folk in qualcosa di più ampio, iniziò a introdurre visioni ampie, complesse, cominciò a parlare del mondo, di quello che stava succedendo, delle lotte per i diritti civili, delle aspirazioni dei giovani, degli orrori della guerra, della paura del nucleare: arrivarono Blowin’ in the Wind, un inno pacifista capace di contagiare il mondo in un baleno (era appena il 1963), poi la inaudita ferocia requisitoria contro i padroni della guerra, Masters of War, poi la febbrile esaltazione di una nuova èra che stava arrivando, The Times They are a-Changin’, poi ancora il mistero di Mr. Tambourine Man, decine e decine di canzoni sconvolgenti, meravigliose, che aprirono un universo di possibilità. […] Dylan dal canto suo è uno che non si è mai fermato. Dopo essere stato il grande pifferaio della rivoluzione delle coscienze, dopo aver aperto la strada ai molti che negli Sessanta completarono quella rivoluzione, ha girato le spalle al mondo folk, ha cercato di distruggere quel monumento che già allora volevano costruirgli intorno: decise di elettrificare la sua musica, di rompere schemi e liturgie, di dissacrare perfino se stesso, e incise Like a Rolling Stone, in assoluto una delle più influenti canzoni del secolo passato, quella che di solito i musicisti arrivati dopo (a partire da Bruce Springsteen) indicano come il momento in cui hanno capito cosa poteva essere il rock e che cosa dovevano fare della propria vita. Poi la psichedelia struggente di Blonde on Blonde, visioni dentro visioni dentro altre visioni, con livelli di complessità e di raffinatezza poetica mai percepite prima in una canzone, e proprio in quel momento, nel 1966, quando più o meno tutto il mondo cercava di tirarlo per la giacca a seguire cause e appelli politici, quando finalmente la sua lingua cominciava a diventare diffusa, condivisa da molti in giro per il pianeta, lui pensò bene di sparire. Con la scusa di un incidente di moto, mai provato, riuscì a stare diciotto mesi fuori da tutto, invisibile, chiuso nel suo rifugio di campagna. […] Dopo il 1968 Dylan continuò in parte a nascondersi, per poi riemergere di tanto in tanto, incidendo ancora dischi epocali, vedi Nashville Skyline, Blood on the Tracks, Knockin’ on Heaven’s Door, tanti altri mattoni del castello, diciamo pure musical letterario, della sua opera» (Gino Castaldo). «Nel 1987 Dylan stava dando molti concerti, ma non era affatto sicuro della direzione in cui stava andando. […] In un concerto a Lugano ebbe una sorta di illuminazione: invece di andare in giro con grossi gruppi e fare grosse tournée da rock star, decise di cantare le proprie canzoni ovunque, in qualunque situazione e circostanza. Questo è quello che ha fatto dal 1988 fino ad oggi. Ha rinunciato completamente agli orpelli della rock star, non si è più presentato con grandi gruppi, cori, scenografie, si è limitato a un trio, che adesso è diventato un quintetto; ha scelto di suonare anche in teatri piccoli e in club, e – anche se a volte ha suonato in stadi con molto pubblico – non ha più voluto porsi alcun obbiettivo di grandezza. È stata una scelta di umiltà, di ritorno a quello che è il lavoro del “menestrello”» (Alessandro Carrera). Nel 2016, la consacrazione del premio Nobel per la letteratura («per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione musicale americana»), prontamente accettato ma sdegnosamente ritirato con ampio ritardo. «Questa è la mossa più “Dylan” da anni a questa parte, ed è forse la più bella notizia che potessimo aspettarci da uno che nel 1965 scrisse Ballad of a Thin Man proprio per andare contro i “parrucconi”, i critici e quelli che cercano sempre di inserire le cose in un canone prestabilito» (Hamilton Santià). Il 31 marzo 2017 è uscito Triplicate, il suo primo album triplo, contenente 30 sue nuove interpretazioni di classici della tradizione americana • Sei figli: cinque dalla prima moglie, la modella Sara Lownds (inclusa una figlia nata alla donna da un precedente matrimonio, adottata da Dylan), e una dalla seconda, la cantante Carolyn Dennis • «Forse non c’è stato nessun poeta che abbia avuto su di lui quell’impatto che ha avuto Rimbaud, tra il ‘62 e il ‘65. Dylan è un autodidatta: ha seguito poco, quasi per nulla, l’università e si è scelto le sue letture da solo, si è lasciato andare alla casualità degli incontri. […] Dylan potrebbe essere una personificazione della leggenda dell’ebreo errante. Lui non ha, in realtà, mai cercato un ritorno a casa, a una patria reale. In fondo, anche lui ha una patria: è quella di cui canta in Highlands, la canzone che chiude Time Out of Mind: è un luogo mitico, una sorta di paradiso perduto, dove giacciono le origini della grande tradizione della musica popolare. Quella è la patria che lui ha cercato di raggiungere. […] Dylan è sempre stato un lettore della Bibbia, per alcuni anni l’ha considerata una fonte letteraria di metafore e suggestioni. Poi ha avuto una conversione verso una forma di cristianesimo evangelico americano, che è durata un paio d’anni; quindi ha avuto un ritorno alla fede ebraica, e attualmente il suo rapporto con la religione è mediato nelle forme di religiosità della canzone popolare» (Carrera) • «Sono Bob Dylan soltanto quando devo esserlo. Il resto del tempo sono me stesso».