5 settembre 2018
Tags : Peter Higgs
Biografia di Peter Higgs
Peter Higgs, nato a Newcastle upon Tyne (Inghilterra) il 29 maggio 1929 (89 anni). Fisico. Premio Nobel per la fisica nel 2013 (insieme al belga François Engert), in relazione alla scoperta del bosone di Higgs • «Il bosone di Higgs non è una particella come le altre. Gioca un ruolo speciale nella costituzione del mondo materiale che ci circonda. Da quando ha occupato ogni angolo del nostro universo ha rotto quella perfetta simmetria che caratterizzava i primi istanti di vita della creatura appena nata, e da lì, da quella sottile imperfezione, è nato il tutto. Le particelle elementari che, prive di massa, correvano caoticamente alla velocità della luce, si sono differenziate sotto l’azione del campo di Higgs: alcune hanno acquistato una massa, altre ne sono rimaste prive; gli elettroni, sono diventati molto leggeri, e si sono aggregati negli atomi a formare la materia, altre particelle sono diventate pesanti e instabili e sono sparite ben presto dalla materia ordinaria. Lì, in quel preciso istante, quando è appena passato un centesimo di miliardesimo di secondo dal Big Bang, è successo qualcosa che ha già segnato il destino di tutto nei miliardi di anni a venire» (Guido Tonelli). È invece del tutto impropria, sebbene largamente diffusa, la definizione di «particella di Dio», «titolo di un libro divulgativo del grande fisico Leon Lederman. Il titolo originale era The Goddamn Particle, “La dannata particella”, ma per ragioni editoriali è poi divenuto The God Particle, cioè “la particella di Dio”» (Edoardo Boncinelli). Tale denominazione è sempre stata rifiutata da Higgs, il quale – sebbene ateo – la ritiene irrispettosa nei confronti dei credenti • «“Già al liceo mi interessavano la fisica di base e la matematica. Un giorno, poi, scorrendo la lista degli ex allievi illustri della mia scuola, scoprii che 25 anni prima era stata frequentata da Paul Dirac, uno dei padri della meccanica quantistica. Incuriosito, studiai i suoi lavori. Poi mi iscrissi a Fisica. Dopo la laurea dissi al mio professore che volevo occuparmi di fisica delle particelle, ma che l’unica persona di cui avevo sentito parlare nel campo era Dirac. Lui mi rispose che nessuno riusciva a lavorare con Dirac: era un solitario e non accettava studenti. In seguito […] mi spiegò che c’era un altro fisico teorico delle particelle, noto per accogliere gli studenti rifiutati da Dirac. Era Nicholas Kemmer”. Dopo la specializzazione lei si stabilì a Edimburgo, dove si trovava Kemmer. Com’era l’atmosfera? “Molto bella. Ero anche segretario di un comitato di scienziati impegnati per il disarmo nucleare, e incontrai molte persone che la pensavano come me. E fra queste la mia futura moglie, che veniva dagli Stati Uniti. […] Kemmer non era molto partecipe della mia attività, ma gli piaceva che nel suo gruppo ci si occupasse di cose diverse e che ciascuno facesse ciò che lo interessava. Ho sempre avuto una mia particolare visione delle cose, non in linea con quella della maggioranza. Anche se non ero riuscito a lavorare con Dirac, ne ero influenzato, e lui diceva che l’unica cosa che vale la pena fare è concentrarsi sui problemi fondamentali. Già allora la maggior parte della gente preferiva studiare questioni collegate ad applicazioni pratiche piuttosto che grandi temi astratti. Io invece volevo capire come funzionano le cose a livello profondo. All’epoca la fisica delle particelle attraversava una crisi. La meccanica quantistica, su cui si basavano le teorie più avanzate, stava cadendo in disgrazia, perché tramite questa non si riuscivano a spiegare due grandi problemi: uno era relativo al come stanno insieme le diverse componenti dei nuclei atomici e l’altro riguardava la forza responsabile dei decadimenti radioattivi”. Quando arrivò a ipotizzare l’esistenza del bosone? “Ho pubblicato i due lavori che mi hanno reso famoso nel 1964, a 35 anni. Il primo era una paginetta in cui facevo un’analisi sostanzialmente matematica. Poiché all’epoca si diceva che gli scienziati europei avrebbero dovuto sostenere le riviste europee pubblicando lì, inviai il mio lavoro a una rivista del Vecchio Continente: Physics Letters. Il lavoro venne accettato. Poco dopo scrissi un secondo articolo, sempre brevissimo, che completava il primo, spiegando come le ipotesi matematiche che avevo fatto si applicassero in concreto nella fisica. Questa volta la medesima rivista rifiutò il lavoro, irritandomi molto. […] Allora aggiunsi dei dettagli, per spiegarmi meglio, e mandai l’articolo a una rivista concorrente degli Stati Uniti, che lo accettò. L’anno successivo andai in sabbatico nel North Carolina. Era l’autunno del 1965 e stava per nascere il nostro primo figlio. Mentre mia moglie era dai genitori, io mi dividevo tra il compito di sistemare l’appartamento dove avremmo abitato e la scrittura di un terzo lavoro, in cui spiegavo la mia teoria in modo più esteso”. Anche quello fu un lavoro fortunato… “Sì. […] In seguito le cose si fecero difficili. Né io né le altre persone che avevano contribuito alla nascita della linea di ricerca sul bosone riuscimmo ad andare molto avanti nelle applicazioni della teoria [si tratta di Robert Brout, François Englert, Gerald Guralnik, Carl R. Hagen e Tom Kibble, ndr]. Gli sviluppi si ebbero dopo il ’67 grazie ad altri. Divenni veramente famoso nel 1972, dopo una conferenza a Chicago. In quell’occasione un fisico di origine coreana, Ben Lee, fece il punto sullo stato delle conoscenze nel settore in cui lavoravo. Avevo incontrato Lee tempo prima e mi aveva fatto molte domande. Mi ero trovato a dovergli spiegare lo stato dell’arte con un piatto in una mano e un bicchiere nell’altra. Gli avevo raccontato le cose a grandi linee, senza specificare chi aveva ipotizzato i dettagli. Così a Chicago mi attribuì praticamente tutto ciò che aveva a che fare con il bosone. I colleghi non ne furono felici…”. Lei però non si è mai opposto a che il suo nome venisse associato al bosone. “No, perché di certo ero stato io il primo ad aver attirato l’attenzione di tutti su quella particella nel 1964”. Cosa ha fatto fino alla scoperta del bosone? […] “In realtà, dopo il 1970, per via del fallimento del mio matrimonio, ho attraversato anni di crisi. Ho ripreso ad appassionarmi al lavoro solo nel 1975 sulla supersimmetria. Ma presto ho realizzato che le persone più brillanti in quel campo avevano 30 anni meno di me e che le mie ipotesi erano sbagliate. Così ho abbandonato per sempre la fisica delle particelle per dedicarmi a temi più matematici”» (Barbara Gallavotti). L’ipotesi del bosone di Higgs «restava comunque lo spicchio conclusivo di una teoria, e bisognava in qualche modo provarlo. Negli anni Ottanta si impegnavano sia gli scienziati americani che quelli europei immaginando ognuno una supermacchina. Gli Stati Uniti il “Superconducting Super Collider” (SSC), per il quale costruivano una grande galleria in Texas. Ma il costo salì troppo, e quando arrivò Bill Clinton alla Casa Bianca cancellò il progetto. A Ginevra, invece, si proseguì, mobilitando l’Europa» (Giovanni Caprara). Il 4 luglio 2012, al Cern di Ginevra, fu annunciata l’avvenuta conferma empirica dell’ipotesi di Higgs. «Per catturare l’impronta del bosone di Higgs c’è voluto l’acceleratore di particelle più potente del mondo, il Large Hadron Collider, un tunnel sotterraneo lungo 27 chilometri, che lambisce il Lago di Ginevra e le pendici del Giura, che ha iniziato a scagliare protoni furiosamente l’uno contro l’altro nel 2008, dopo 20 anni di costruzione e 10 miliardi di spesa. La lunga attesa per mettere nel sacco il bosone di Higgs è dovuta in buona parte alla necessità di costruire questo gioiello della tecnologia, in cui l’Europa ha nettamente scavalcato gli Stati Uniti e a cui l’Italia partecipa con 3 mila dei circa 10 mila scienziati attraverso l’Istituto nazionale di fisica nucleare. Tre dei quattro esperimenti che studiano i frammenti di particelle generati dalle collisioni fra i protoni sono attualmente guidati da fisici italiani. Fabiola Gianotti in particolare è responsabile di Atlas, un gigante da 7 mila tonnellate e 48 metri capace di individuare il passaggio di particelle di dimensioni infinitesime. Questo rilevatore, insieme al gemello Cms, ha dato la caccia per 18 mesi alle impronte lasciate dal bosone di Higgs. […] L’ultimo pezzo mancante è stato finalmente trovato. […] Oggi Higgs è seduto in prima fila nel seminario del Cern che illustra i dettagli della complicatissima caccia alla sua creatura. […] E lui risponde al successo della sua intuizione giovanile con un sorriso da 83enne dolce e schivo. “Congratulazioni, è straordinario vedere questo risultato mentre sono ancora vivo”, ha detto emozionato» (Elena Dusi). «Come ho festeggiato? Con una lattina di birra London Pride, sul volo di ritorno a Londra» (a Jessica Griggs). Nel 2013, la consacrazione del premio Nobel • Nel giugno 2016 sottoscrisse, insieme ad altri dodici premi Nobel britannici, un appello contro l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, in cui si sottolineava l’importanza dei fondi comunitari per la ricerca scientifica britannica («Saremo anche un’isola, ma non siamo scientificamente isolati. Far parte dell’Unione europea è un bene per la scienza britannica, e dunque è un bene per tutta la Gran Bretagna») • Molto timido e riservato, non usa cellulare né computer, e non possiede nemmeno un televisore. «Il professor Higgs adora la musica classica e ha un vecchio impianto a valvole. L’arte in generale lo appassiona. Per scrivere usa ancora carta e penna» (Alan Walker, suo stretto collaboratore) • Vedovo, ha due figli e due nipoti. «Mio nipote ha 14 anni [nel 2013, ndr] e comincia a interessarsi alla scienza. Probabilmente una certa influenza l’avrà avuta il fatto che, il primo giorno di liceo, alla prima lezione di scienze, in fondo all’aula c’era un poster con una mia foto al Cern. L’ultima volta che abbiamo pranzato insieme mi ha chiesto come funziona questa cosa della relatività. È un buon inizio…» • «È bello avere ragione, a volte».