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 2018  settembre 05 Mercoledì calendario

Biografia di Sergio Staino

Sergio Staino, nato a Piancastagnaio (Siena) l’ 8 giugno 1940 (78 anni). Fumettista. Vignettista. Regista. «Lo storico del futuro che, all’interno della sua calotta di plastica antiradiazioni, voglia capire che cosa è successo a una generazione italiana, oltre ai molti rispettabili documenti che si troverà a sfogliare, dovrà tenere presente anche Bobo, forse più dei libri di Toni Negri, dei discorsi di Berlinguer o delle annate di Lotta Continua» (Umberto Eco) • «Mia mamma è di Scandicci, mio padre invece era di Stigliano, provincia di Matera. […] Mio padre era arrivato a Firenze sfuggendo alla fame del Sud, arruolandosi nei carabinieri. Mio nonno materno, comunista di Scandicci, aveva accolto in casa questo genero con una diffidenza che non si è mai sopita del tutto, un po’ per essere l’intruso meridionale e molto per essere carabiniere». Due giorni dopo la sua nascita, l’Italia entrò in guerra, e suo padre dovette partire per il fronte. «La mamma resta sola a prendersi cura del neonato. Sarà l’inizio di un legame speciale, forte e imperituro. […] È proprio quella mamma a mettergli in mano, dai tre anni in poi, l’occorrente per ridisegnare le tavole dei libri illustrati» (Antonella Landi). «Se sono diventato un disegnatore, lo devo a lei. Perdeva ore per insegnarmi a copiare figure fiabesche e stilizzazioni. Mi ha fatto amare il disegno». «Io vengo da una famiglia povera dal punto di vista culturale. […] Non so come e da dove mi è venuto, ma ho sempre avuto un grande amore per i libri, che erano a casa mia una cosa rara e preziosa. Mi ricordo che quando avevo sette-otto anni sono stato ammalato. Dovevo stare a letto per qualche giorno. Mio padre mi chiese se volevo un regalino, qualcosa, per passare il tempo. E io gli chiesi un libro. […] Invece tornò non con un libro, ma con una cosa strana che non avevo mai visto prima: era un giornalino di Walt Disney, un Albo d’oro della Mondadori. E piansi disperatamente. Mio padre rimase malissimo: “Ma mi avevano detto che ai bambini piacciono di più i fumetti”, cercava di giustificarsi e di consolarmi. E io: “No, volevo un libro, un libro; che cos’è questa cosa qui con tutti disegnini?”. Poi mi misi a leggerlo e mi piacque, mi affascinò enormemente. Scoprii il fumetto. […] In quarta elementare mi capitò una maestra di prima nomina, molto entusiasta – si chiamava Leda Lucci –, anche molto carina, rossa di capelli, giovanissima. Mi considerava un piccolo genio». «“Era innamoratissima dei miei disegni. A 9 anni mi portò agli Uffizi, e io per la prima volta restai imbambolato davanti a tutti quei cavalli dipinti dai grandi maestri”. Il sogno finisce alle medie. Bocciato in disegno. “Eppure gli amici non facevano che chiedermi: ‘Sergio, facci una donna nuda!’, e io li accontentavo. Certo, lasciavo dei segni confusi tra le cosce, non avevo le idee molto chiare, ma poi approdai all’istituto d’arte”. È il 1952 quando Staino prende a frequentare quello che oggi si chiama liceo artistico, ma inizialmente lo fa in modo parziale: la mattina lavora in una fabbrica di ceramica, il pomeriggio viene a scuola per tre ore di “cultura generale” previste da un corso di apprendistato. Finché qualche docente gli suggerisce di iscriversi regolarmente ai corsi mattutini e prendere il diploma vero. […] Preso il diploma, Staino si iscrive alla facoltà di Architettura e consegue la laurea». «Mi ero laureato in Architettura, poi mi ero iscritto nei marxisti-leninisti, che mi avevano dato la direttiva di non esercitare assolutamente il lavoro di architettura e di urbanistica: per la militanza bisognava avere molto tempo libero. Ovviamente, dopo la rivoluzione, avrei potuto fare quello che volevo. Così ero andato a insegnare applicazioni tecniche alle scuole medie. L’insegnamento mi piaceva molto. Dieci anni dopo, nel 1979, sono riuscito a venire fuori da questo partito che pubblicizzava l’Albania come la terra del futuro. “Compagni albanesi, vi giuriamo che un giorno l’Italia sarà come l’Albania!”. Cose da folli. Nello stesso anno, il 1979, ho avuto la prima rottura di retina. Una tragedia. Io il disegno ce l’ho nel sangue, vivo per il disegno. Il medico mi ha detto: “Sergio, è una degenerazione retinica, possiamo provare a rallentarla un po’ ma frenare non si può. Non diventerai mai cieco del tutto ma sarai molto vicino alla cecità”. […] Allora, in questa situazione, mi son detto: cosa faccio cosa faccio cosa faccio? Mi piaceva tanto disegnare, leggevo Linus; da piccolo mi ero formato, grazie al cielo, leggendo Paperino di Carl Barks. […] E ho detto, sai cosa faccio? Voglio provare. Io facevo i disegni, le caricature ai colleghi insegnanti, che mi dicevano “Accidenti a te. Madonna, avessi io la capacità di disegnare come tu disegni me!”, “E che tu faresti?”, “Eh io farei qualcosa, farei dei lavori con i disegni, altro che fare il bischero qua a perder tempo”. Allora sono tornato a casa e ho detto a Bruna [la seconda moglie – ndr]: “Provo a fare delle strisce. Oggi è il 10 ottobre 1979: tra un anno, il 10 ottobre del 1980 (ero ancora un po’ comunista: non facevo proprio piani quinquennali, ma insomma), vedo un po’ dove siamo, voglio provare se magari riesco a pubblicarle sull’Eco di Scandicci”. Mi son messo al tavolino e ho passato un quarto d’ora a pensare cosa fare. Animali? Erano tutti occupati. Poi, l’illuminazione profonda. Che scemo: fai te stesso. Hai un sacco di storie qui nel gozzo, delusioni, frustrazioni, cazzate che hai fatto. Lascia stare la politica, tanto non ne capisci nulla. Fai una satira di costume su una piccola famiglia. Mi sono fatto l’auto-caricatura. […] Mi sono imbruttito, tutto pelato, più grasso di quanto non ero. Una camicia vagamente militare; forse un ricordo di Fidel Castro con la sigaretta seduto alla macchina da scrivere, a scrivere non si è mai saputo che cosa. Dopo Bobo ho fatto Bibi, la sua compagna, che era la mia. Ho fatto la bambina, poi vari amici tra cui Molotov, carissimo amico sardo, stalinista fuori dei tempi, filosovietico, uno che pensava che Brežnev fosse il riscatto dell’Unione Sovietica. Ho tentato di raccontare storie di costume, però la politica era talmente dentro di me che, buttata fuori dalla porta, fatalmente rientrava dalla finestra. Ma in un modo nuovo per l’Italia. Ce n’era già molta, di satira politica, in Italia, ma riguardava direttamente i personaggi del teatro della politica. Chi andava forte era Forattini, che lavorava in questo modo. […] Questa è stata la vera novità di Bobo. Gli amici ridevano. Allora le pretese sono cresciute. Ho pensato alla Nazione di Firenze, poi a Paese sera, che già pubblicava le Sturmtruppen di Bonvi. E poi ho pensato: provo a mandarle a Linus. Ho fatto una letterina, verso la fine di ottobre, e l’ho mandata a Oreste del Buono, che di Linus era il direttore. […] “Sono Del Buono”. Una voglia di svenire. “Le tue cose sono bellissime, proprio quelle che aspettavo. Vieni, firmiamo il contratto perché ci tengo molto. Vedi, tu mi risolvi un problema, perché ho Altan che copre gli operaisti, ma mi manca il ceto medio, e me lo copri te”. […] L’appuntamento era alle tre e mezza; io a mezzogiorno ero già lì. Alle tre e mezza ho suonato. C’era Del Buono con un signore. “Staino, vieni, ché ti presento un tuo collega, Guido Crepax”. Porca miseria. Ho abbracciato Crepax: ero già diventato collega suo. […] Nel 1982 già avevo ormai una certa notorietà. E quando mi arrivò la richiesta di portare Bobo sull’Unità mi preoccupai moltissimo. Non mi sentivo più un personaggio politico, non mi sentivo nemmeno così vicino al Pci, o forse sì, ma non da militante. […] Avevo sottovalutato il fatto che a chiedermi di disegnare sull’Unità fosse il nuovo direttore, Emanuele Macaluso. Quel Macaluso “migliorista” che io guardavo con diffidenza. […] In realtà Macaluso aveva capito che bisognava rompere questo apparato ecclesiastico del partito e incominciare a portare alla luce anche contrasti e dubbi. E pensava che il mio personaggio, proprio per la sua irriverenza anche nei confronti della sinistra, potesse essere il personaggio giusto. Naturalmente questo non me lo ha mai detto. L’ho capito dopo. Ma mi ha blandito, coccolato. […] Mi dispiaceva dire di no. Ho parlato con Bruna, dicendole: “Guarda, ho un unico modo di sfuggire all’Unità, fare delle vignette talmente cattive che non potranno pubblicarle. E alla prima che non mi pubblicano, io potrò dire: io ho provato, però, cari amici…”. […] E ho fatto dieci vignette a mio avviso molto feroci. Di tre proprio ero sicurissimo: non le pubblicheranno mai. […] Macaluso le vignette me le ha pubblicate tutte, ed è successo un casotto. Gente entusiasta. Lettori di Linus che sono diventati lettori dell’Unità. Altri che hanno detto “finalmente!”. Però da tante sezioni sono partite le lettere al comitato centrale: “Ora si fa disegnare i fascisti sull’Unità?”» (Maurizio Puppo). Nel 1986 fondò Tango, settimanale satirico dell’Unità, che diresse fino alla sua chiusura, nel 1988. «All’epoca c’era il Pci. […] Io non fui cattivo: irriverente tutt’al più, ma, dall’interno della stessa chiesa, i graffi bastarono a creare il caos. Al congresso di Rimini, il prologo dello scioglimento del Pci, ero a pranzo nell’albergo in cui era ospitata la nomenklatura. A un tratto entrò Natta, il segretario. Mi vide nella sala e venne verso di me urlando. Gridò, diventò paonazzo: “Tu, tu, tu, te e il tuo maledetto Tango! Siete stati voi a trascinarci nella tragedia che stiamo vivendo”. Era un’accusa sovradimensionata, però, un contributo a far crollare il Pci monolitico e ad aggiornarne le istanze, io, Pazienza, Ellekappa e Altan lo fornimmo» (a Malcom Pagani). «“Il mio è un lavoro da solitario. Ma per trovare idee devo uscire”. Ecco allora, anche per un’incontenibile curiosità, il cinema (Cavalli si nasce dell’89 e Non chiamatemi Omar del 1992, insieme con Altan), la televisione (Cielito lindo), i reportage in giro per il mondo per l’Unità, perfino l’attività da sindacalista» (Valeria Palumbo). Nel 2007 ideò un altro settimanale satirico dell’Unità, Emme, che cessò le pubblicazioni nel 2009. Della stessa Unità fu nominato direttore nel settembre 2016 («Uno storico vignettista come Vincino era quasi più emozionato di me. Mi ha chiamato dicendomi: “Sergio, è la prima volta che un vignettista diventa direttore di un giornale serio! È bellissimo!”»), e – dapprima affiancato da Andrea Romano – ricoprì l’incarico, con un breve intervallo, fino alla chiusura del giornale, avvenuta il 3 giugno 2017. Molto clamore per l’attuale collaborazione con il quotidiano della Cei, Avvenire, su cui dal 1° ottobre 2017 pubblica ogni settimana la striscia «Hello, Jesus!», nonostante il suo dichiarato ateismo e la sua carica di presidente onorario della Uaar (Unione degli atei e degli agnostici razionalisti). «Ateo sono e ateo rimango». «Già otto anni fa ho messo mano a questo mio Gesù, ma non ho mai pubblicato le strisce. Solo ora le ho proposte ad Avvenire, giornale di cui ho stima. Trovo che il giornalismo cristiano abbia uno sguardo aperto sulla realtà. […] Per me Gesù è un bellissimo personaggio storico, il primo dei socialisti, il primo a combattere per i poveri». Oggi Staino è quasi cieco, ma continua a disegnare. «I disegni migliori li ho fatti negli Anni ’80 e ’90, poi nel 2000 mi sono arreso al digitale. Un passaggio triste. La materia è un’altra cosa, mi mancava la china, la carta grossa e ruvida. Per me era una resa alla tecnologia che mi avrebbe tolto il piacere dell’arte. Mi sbagliavo. Nel computer ho scoperto un mondo ricchissimo, e con il touch screen mi son trovato a disposizione una quantità enorme di immagini. Persino la penna digitale risente delle mie vibrazioni, e certi giorni fa proprio il segno di Staino» • «Ha alle spalle una vita di militanza nel comunismo, continuata anche quando il suo Pci ha dato inizio ai suoi sbandamenti. […] Lui nel Pds, Ds e Pd c’è rimasto, ma il suo cuore batte con l’estrema sinistra. E lo ha scritto nel suo Alla ricerca della pecora Fassina. Manuale per compagni incazzati, stanchi, smarriti, ma sempre compagni (Giunti, Firenze 2016)» (Gianfranco Morra). «Ora al mondo mi sembra che ci siano soltanto due persone che abbiano una visione globale di dove sta andando il mondo, e giustamente ne sono terrorizzati. Il Papa e Carlìn Petrini. Non ne esistono altri» (ad Andrea Coccia) • Sposato in seconde nozze con Bruna, nata in Perù da genitori italiani; due figli: Ilaria e Michele • «Il disegno mi ha salvato. Sempre».