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 2018  settembre 05 Mercoledì calendario

Biografia di Gulbuddin Hekmatyar

Gulbuddin Hekmatyar, nato a Imam Sahib (Kunduz, Afghanistan) il 26 giugno 1947 (71 anni). Politico. Già primo ministro dell’Afghanistan (1993-1994; 1996-1997). Guerrigliero. Fondatore e leader della formazione politica paramilitare Hezb-i Islami Gulbuddin (Hig) • «Figlio di pastori del clan Kharot, ramo della tribù pashtun Ghilzai della provincia di Baghlan, nel nord-est del Paese» (Claudio Bertolotti) • «Avrebbe avuto un passato giovanile nel Pdpa, il partito comunista afgano. Vero o non vero, lo nega. […] Dopo una formazione all’accademia militare, ha studiato Ingegneria al politecnico di Kabul, ma non si è mai laureato» (Emanuele Giordana). «In quel tempo, aveva altri interessi. Questi consistevano nel compiere attacchi con l’acido e con il lancio di pietre contro le studentesse, sia che fossero della fazione Parcham, Khalq oppure Shola-e Jawedan [formazioni comuniste afgane – ndr]. Nel 1972, Hekmatyar fu messo in prigione per l’omicidio dello studente e poeta maoista Saydal Sukhandan, ma evase dopo un anno e mezzo, non prima però, che gli venisse dato un ruolo di comando nel movimento islamista: guidava la loro attività politica dall’interno del carcere» (Justin Podur). «Nel 1974 si rifugia in Pakistan, dove partecipa con Burhanuddin Rabbani e Ahmad Shah Massud – nelle fila del partito Jamiat-e Islami – al tentativo di sollevazione contro il regime di Daud in Afghanistan (1975). A seguito del fallimento dell’iniziativa, fonda il suo partito, l’Hezb-e Islami (1976). Durante l’invasione sovietica diviene protagonista della guerra di resistenza distinguendosi nella lotta agli altri gruppi di mujaheddin» (Bertolotti). «Lo incontro nel suo “covo” di Peshawar, città pachistana dove trovano rifugio i capi dei mujaheddin clandestini. […] Ambizioso e ingordo di potere com’è, odia visceralmente Ahmad Shah Massud, che è già diventato leggenda come “leone del Panshir”, nome della splendida valle a nord di Kabul in cui è nato e dove ha trascorso l’adolescenza prima di scendere nella capitale per studiare Legge. Sulla scrivania di Gulbuddin c’è anche il ritratto di Khomeini, che ritiene il suo maestro ma a cui rimprovera certe “debolezze”. “Sono perfettamente d’accordo con l’ayatollah – afferma – quando sostiene che nel governo non si debba far posto alle donne, ma dissento da lui quando lascia capire che sarebbe disposto a tollerare la presenza di un partito comunista nel Paese. Su questo punto, io non transigo e parlo chiaro. Finché ci sarò io, nessun uomo che si dichiari comunista potrà vivere impunemente entro i confini dello Stato”. […] “La jihad sono io – dice trafiggendomi con le pupille –. Sono io, la spada di Allah. Noi dello Hezb-i-Islami possiamo vantare i primi martiri come i primi infedeli abbattuti sul campo di battaglia”» (Ettore Mo). «Nei primi anni Ottanta, arruolò tra i mujaheddin del suo partito un giovane e ricchissimo arabo saudita che voleva immolarsi per Allah nella lotta contro i senza dio dell’Armata rossa: un certo Osama Bin Laden. Gli assomigliava in tutto. […] Dal suo pulpito di Peshawar, il grande retore Gulbuddin era riuscito a convincere il mondo intero che soltanto lui avrebbe potuto ricacciare l’Armata rossa oltre l’Amu Darya, ripristinando l’equilibrio politico dell’Asia Centrale compromesso dalla presenza sovietica: e il Pakistan e gli Stati Uniti non esitarono a credergli. Anche se continuava a sbraitare contro l’imperialismo internazionale, accomunando nell’accusa Mosca e Washington, gli americani avevano un occhio di riguardo per questo signore della guerra afgano, che sembrava avere più frecce avvelenate degli altri nella sua faretra; e, quando nell’86 arrivarono gli Stinger, che avrebbero cambiato le sorti della guerra, fu lui ad averne la partita più consistente. Anche l’estrema destra pakistana, la più bigotta e reazionaria, vedeva in lui l’apostolo dell’Islam, e i servizi segreti di Islamabad, l’Isi, lo foraggiavano di informazioni che furono invece negate agli altri leader» (Mo). «Durante tutta la guerra, Hekmatyar divenne famoso per il suo personale stile di guerra: torturare e uccidere le persone perché facevano parte delle minoranze tagiche, hazare o uzbeche, assassinare i comandanti islamisti suoi rivali e le loro truppe, scorticare vivi i soldati sovietici, sequestrare le colonne di veicoli che portavano medicine e cibo, uccidendo giornalisti stranieri. Hekmatayar si impossessò del commercio dell’eroina dopo aver assassinato il trafficante Mullah Mohammad Nasim, nel 1990, a Peshawar. Una priorità più importante era l’uccisione della gente di sinistra e dei liberali: il dottor Faiz Ahmad dei Maoisti; Meena, la fondatrice dell’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan (Rawa); il professore di filosofia Sayid Bahauddin Majrooh. […] Il ritiro fu una delle prime decisioni di Gorbaciov quando andò al potere nel 1985, e fu completato nel 1989» (Podur). «Quando, il 15 febbraio del 1989, il generale Gromov, ultimo uomo dell’Armata Rossa a lasciare il Paese, varca il ponte dell’Amu Darya, è il canto lamentoso del muezzin a diffondersi nell’aria. Una delle più gravi conseguenze dell’occupazione sovietica (durata nove anni) fu l’esodo di cinque milioni di afghani, che abbandonarono precipitosamente il Paese per trovare rifugio nelle tendopoli e baraccopoli germinate appena oltre frontiera, soprattutto in Pakistan, nelle fiere comunità autonome pashtun della North-West Frontier. I guai veri sarebbero arrivati subito dopo» (Mo). «L’impresa più abile di Massoud fu la conquista di Kabul, nel 1992, dopo il ritiro delle truppe sovietiche, quasi senza colpo ferire. Massoud veste i panni di ministro della Difesa, vero uomo forte del nuovo governo islamico. […] Purtroppo i mujaheddin perdono subito la scommessa della pace, scannandosi in un conflitto civile che oppone il Leone del Panjsher al rivale di sempre, Gulbuddin Hekmatyar, leader del partito integralista Hezbi-i Islami. La ruggine fra i due risale agli anni dell’invasione sovietica. Un giorno Hekmatyar aveva inviato a Massoud una quindicina di sacchi, di quelli usati normalmente per la spazzatura: dentro c’erano dei corpi tagliati a pezzi. Erano il secondo in comando di Massoud e la sua scorta, finiti in un’imboscata. Al di là della lotta per il potere, lo scontro è tra due etnie e tra due idee dell’Afghanistan: Hekmatyar, che guida i pasthuni, il gruppo maggioritario nel Paese, è un estremista; Massoud è di origini tajike, appartiene all’etnia minoritaria del Nord, che quasi mai è riuscita a governare l’Afghanistan. Le famiglie taijke, come quella del Leone del Panjsher, hanno sempre rappresentato la classe media afghana. […] La dinastia di Hekmatyar, invece, è legata al clero tradizionalista e ai proprietari terrieri del Sud» (Fausto Biloslavo). «Non erano tanto gli incarichi politici conferiti al suo avversario a scatenare l’invidia di Hekmatyar, quanto l’immagine che il leone del Panshir s’era costruito e cucito addosso di uomo integro e coraggioso: forse il solo che avrebbe potuto avviare il Paese verso un sistema relativamente democratico, dopo anni (secoli) di oscurantismo medioevale [Massoud fu assassinato il 9 settembre 2001, a 48 anni, in un attentato suicida di probabile matrice qaedista – ndr]» (Mo). «Quando nel 1992 la “coalizione” islamista arriva a Kabul facendo cadere l’ultimo regime filosovietico di Najibullah, Hekmatyar si sente tagliato fuori dai giochi. Che vengono fatti da chi è arrivato prima: Rabbani con il fido Massud, e il generale Dostum, un abile militare capace di spericolate alleanze. […] Si tenta un accordo, e ad Hekmatyar viene offerta la carica di premier (Rabbani sarà il presidente e Massud il ministro della Difesa). Hekmatyar rifiuta e si allea con Dostum e il partito hazara del Wahdat, gente con cui non era in realtà mai corso buon sangue. Si combatte. Nel ’93 le cose cambiano, e lo si vede accettare l’incarico dal marzo al gennaio successivo, anche se poi si dimette. Nel giugno del ’96 accetta nuovamente la poltrona. Nel corso di questi spostamenti di rotta, Hekmatyar non adotta la via della diplomazia, ma quella del cannone. Bombarda pesantemente Kabul e ne distrugge una larga parte, alienandosi molte simpatie tra gli stessi pashtun. […] Ha ucciso più afgani, dicono, che russi. Poi arrivano i talebani e mettono fine a tutti i giochi. Hekmatyar scappa in Iran, da cui poi viene espulso» (Emanuele Giordana). «Durante il regime taliban è stato costretto a abbandonare Kabul a causa della sua opposizione al movimento del mullah Omar. Attriti e divergenze di carattere politico hanno portato a prese di posizione differenti tra i due movimenti, anche dopo l’occupazione americana, nonostante un’iniziale politica comune. I contrasti, sfociati in veri e propri scontri armati, hanno così mostrato quanto l’alleanza fosse instabile e tutt’altro che duratura. […] Alcuni membri del movimento Hig, accettando la politica di compromesso avviata da Karzai, hanno trovato nella riconciliazione una possibilità per poter contribuire politicamente, e non militarmente, allo sviluppo dell’Afghanistan dell’epoca post taliban» (Bertolotti). «Hekmatyar fu poi il principale aiuto a Bin Laden per la sua fuga dalle montagne di Bora Bora, come dichiarato da lui stesso alla Cnn. Designato nel 2003 come “terrorista” dalle Nazioni Unite, è poi stato inspiegabilmente graziato ed eliminato dalla lista nera. Un gesto che ha permesso a Hekmatyar di rientrare oggi in Afghanistan e chiedere ai talebani, suoi storici avversari, di lasciare le armi e scendere al tavolo con il suo gruppo e il governo di Kabul» (Michele Crudelini). Il 22 settembre 2016, dopo una lunga serie di segnali distensivi (costellati di persuasivi attentati) tra Hekmatyar e i vertici istituzionali afgani, è infatti avvenuta la svolta: «Un accordo in 25 punti. […] La storica firma tra il presidente afghano Ashraf Ghani ed il “signore della guerra” Gulbuddin Hekmatyar veniva da tempo “inseguita” tanto dal governo di Kabul quanto da Hezb-i Islami, il gruppo armato capeggiato dal “war lord” che, negli ultimi anni, ha appoggiato i talebani nella loro azione antigovernativa e di distruzione delle forze internazionali. Il presidente Ghani, che non è riuscito a venire a capo di un accordo con i talebani, spera in Hekmatyar e nel suo gruppo come intermediari in un processo di pacificazione che porti, appunto, anche i talebani al dialogo. […] Al vecchio mujahid sono rimaste due possibilità. Combattere per riottenere il potere – ma ormai ha pochi fondi e combattenti, poiché in molti del suo gruppo hanno aderito ad altre formazioni che pagavano salari migliori, o al crescente Stato Islamico – o farsi “abbracciare” da Kabul per sottrarsi al declino. Evidentemente […] ha scelto la seconda strada» (Daniela Lombardi). Infine, il 4 maggio 2017, «Gulbuddin Hekmatyar, come parte dell’accordo di pace sottoscritto col governo afghano, […] è rientrato nella capitale con una scorta armata e 4 elicotteri dell’esercito. Ma entrando a Kabul la processione sembrava poco una delegazione di pace e più una milizia che esibiva lanciarazzi e mitragliatrici sul retro dei camioncini. Hekmatyar si è diretto verso il palazzo presidenziale, dove è apparso vicino al presidente dell’Afghanistan Ashraf Ghani. “La cosa più importante per me è terminare questa guerra e salvare il Paese dalla crisi”, ha dichiarato il vecchio ex leader dei ribelli. […] Nel tentativo di cancellare il suo soprannome di “macellaio di Kabul”, Hekmatyar ha dipinto se stesso come mediatore di pace, apostrofando i talebani “miei fratelli” e chiedendo loro di deporre le armi. La pace, ha detto a Kabul, giustificherebbe la partenza delle truppe straniere, una richiesta che ha definito recentemente come parte degli accordi di pace» (Sune Engel Rasmussen) • Due mogli e nove figli (sei femmine e tre maschi) • «Fondamentalista tutto d’un pezzo, è al tempo stesso un abile osservatore d’ogni mossa politica, qualità che gli ha permesso di sopravvivere a ogni fase che la terra dell’Hindu Kush sta conoscendo» (Enrico Campofreda). «La sola richiesta del popolo afghano è giustizia: non esiste la pace senza giustizia» (Malalai Joya) • «Sulla sua scrivania, il Corano e una pistola: evidentemente in stretto rapporto l’uno con l’altra» (Mo).