5 settembre 2018
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Biografia di Giorgio Napolitano
Giorgio Napolitano, nato a Napoli il 29 giugno 1925 (93 anni). Politico. Presidente emerito della Repubblica (presidente in carica dal 15 maggio 2006 al 14 gennaio 2015). Senatore a vita (dal 23 settembre 2005). Già ministro dell’Interno (1996-1998) e presidente della Camera (1992-1994). Deputato dal 1953 al 1963 e dal 1968 al 1996 (Pci, Pds, Ds). Europarlamentare dal 1989 al 1992 e dal 1999 al 2004 (Sue, Pse). «Sono stato uomo di partito impegnato in politica attiva. Ma […] divenni via via sempre di più un uomo delle istituzioni» (ad Adam Michnik) • «Il padre, Giovanni, era un avvocato e poeta, originario di Gallo di Comiziano, un piccolo paese della provincia di Napoli. La madre, Carolina Bobbio, era di origini piemontesi. Nei primi anni di vita abitò a Napoli, in via Monte di Dio, nei Quartieri Spagnoli a pochi passi da piazza del Plebiscito. Ha studiato al liceo classico Umberto I di Napoli, tranne l’ultimo anno, che frequentò a Padova, dove la famiglia si era trasferita, diplomandosi al liceo Tito Livio. Si è laureato in Giurisprudenza all’Università di Napoli Federico II nel 1947 con un tesi di economia politica, che aveva il titolo Il mancato sviluppo del Mezzogiorno. Durante l’università, Napolitano fu iscritto ai Gruppi universitari fascisti (Guf), […] a cui si iscrivevano su base volontaria gli studenti dell’università e dell’accademia. All’interno del Guf, Napolitano prese parte alle attività teatrali (Teatroguf) e cinematografiche (Cineguf). Napolitano recitò anche in alcuni spettacoli – tra cui, nel ruolo di protagonista, Viaggio a Cardiff di Eugene O’Neill – messi in scena dal Guf a Palazzo Nobile, a Napoli. La compagnia si chiamava Teatro degli Illusi. […] Molti anni dopo, Napolitano […] definì il Guf “un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste, mascherato e fino a un certo punto tollerato”» (Davide Maria De Luca). «In quello stesso periodo, dirompente fu l’incontro con la politica: “Una lunga conversazione con Antonio Ghirelli mi convinse della dolorosa necessità che l’Italia per salvarsi doveva perdere la guerra”. Dopo la Liberazione ci fu l’avvicinamento e l’entrata nella casa comunista: “Scattò in me come una molla, ideale e morale. Fui coinvolto in quella ‘corsa alla politica’ di cui parlava Giaime Pintor nell’ultima lettera al fratello Luigi”. Una “corsa” nella quale non c’era molto spazio per altri interessi. “Non avrei voluto abbandonare cinema, teatro, letture, ma gli impegni politici mi imposero molti sacrifici, anche nei confronti della famiglia”» (Mirella Serri). «Per diventare comunista, nella Napoli del 1944, Giorgio Napolitano ruppe col padre, grande avvocato liberale. Fu una rottura doppia. Ideologica, ma anche umana. All’incomprensione per la scelta politica si sommava la delusione per la mancata scelta di seguirne le orme nella professione. I Napolitano erano borghesi. Facevano le vacanze a Capri. Qui Napolitano conobbe Curzio Malaparte, che gli regalò una copia di Kaputt, con la seguente dedica: "A Giorgio, che non perde la pazienza neanche dinanzi all’Apocalisse". […] Decisivo sarà l’incontro con Giorgio Amendola, figura chiave dell’antifascismo, partigiano: il capo della destra Pci. "Era energia allo stato puro", disse di lui il futuro capo dello Stato. […] Il Napolitano borghese, il ragazzo di via Chiaia, che frequentava Raffaele La Capria, Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, quindi sceglie il partito che vuole riscattare la classe operaia: in fondo si spiega così il fascino del Pci, le sue molteplici contraddizioni. Ovvero, un partito che predicava la rivoluzione, ma stando ben dentro il sistema democratico-parlamentare» (Concetto Vecchio). «Fin dal momento in cui si iscrisse al Pci, nel novembre del 1945, “presentato” da Mario Alicata e Renzo Lapiccirella, il ventenne Napolitano, che sembrava destinato a una vita culturale d’alto bordo, entrò in simbiosi con quell’entità singolare che era il Pci. Aveva frequentato per qualche mese Curzio Malaparte; […] Alicata gli aveva affidato la rubrica di critica teatrale sulla Voce, quotidiano che allora usciva a Napoli; era insomma intriso della cultura di quella Napoli vivacissima che usciva dalla guerra cercando una propria via, fra il crocianesimo e orientamenti nuovi, il cinema, la poesia, l’America di Elio Vittorini, con una spruzzata di marxismo che allora si limitava al Manifesto del 1848, letto in appendice del Labriola ripubblicato da Croce. “Continuavo in realtà a soffrire di insufficiente approfondimento e convinzione dal lato ‘ideologico’, ma sempre più forte si era fatto in me l’impulso politico e, direi, morale, il senso della necessità di un impegno concreto a operare in una realtà dolorante, carica di ingiustizie e di miserie”. […] Dicono i suoi nemici che Napolitano è sempre stato un campione nel rilevare a posteriori gli "errori" del Pci a cui aveva contribuito. L’opposizione al progetto degasperiano di integrazione europea, considerata “un sottoprodotto della strategia di divisione e di asservimento dell’Europa attribuita agli Stati Uniti”, e che configura oggi ai suoi occhi “forse il più grave segno di cecità della sinistra, che avrebbe pesato a lungo sul suo ruolo nazionale e internazionale”. Nel 1956, la giustificazione dell’intervento militare sovietico in Ungheria, i carri armati a Budapest, con un intervento polemico contro Antonio Giolitti (che in seguito ai sanguinosi fatti ungheresi uscì dal Pci): “Mi mosse allora anche un certo zelo conformistico”, avrebbe poi confessato. […] In fondo, Napolitano è la sintesi migliore dell’impossibilità del Pci di essere normale: della sua impossibilità di condurre tempestivamente una revisione in senso non marxista, come i socialdemocratici tedeschi della Spd avevano fatto già nel 1959; dell’incapacità dunque di presentarsi come alternativa politica reale, dopo il fallimento del centrosinistra (quello di Moro, Nenni e Fanfani)» (Edmondo Berselli). «Napolitano si definì sempre un allievo di Amendola e fu al suo fianco in uno dei momenti di massimo conflitto tra le due ali del partito – i riformisti e l’ala sinistra – quando Amendola si scontrò nel 1966, durante l’XI Congresso, contro Pietro Ingrao. I cambiamenti, di Napolitano e del partito, furono evidenti nel 1968, quando l’esercito sovietico e dei suoi alleati intervennero per soffocare la Primavera di Praga e deporre il governo del “socialismo dal volto umano” di Alexander Dubček. Fu proprio Giorgio Napolitano a incaricarsi di scrivere il comunicato con il quale il Pci criticò l’invasione» (De Luca). «Nel 1978, nei giorni del sequestro Moro, in quanto ministro degli Esteri del Pci, era stato il primo dirigente comunista a essere ricevuto negli Usa; presentato a Harvard da Franco Modigliani. Disse, da vero migliorista, che per i comunisti italiani la realizzazione del socialismo "non richiede il passaggio allo Stato o ad altre forme di proprietà collettive di tutti i mezzi di produzione". Erano appena passati vent’anni dai fatti d’Ungheria, e al Pentagono commentarono: "He is pinker than red". […] Fu Pietro Ingrao a coniare il termine “migliorista”, a cui il filosofo Salvatore Veca diede questa definizione: "È utopico pensare a modelli di società diversi, miglioriamo piuttosto quella che abbiamo". Giorgio Napolitano fu, dopo la morte di Giorgio Amendola nel 1980, il capo dei miglioristi nel Pci. La destra del partito. I riformisti. Riformismo, nella sinistra di allora, era considerata una malaparola. Peggio: una bestemmia. I riformisti – Napolitano, Macaluso, Iotti, Lama, Chiaromonte, Bufalini – erano quelli che dialogavano con il Psi, con l’odiato Craxi. Anglofilo, di carattere puntiglioso, aristocratico, Napolitano era un leader, stimato, rispettato, ma pur sempre il leader di una minoranza a cui si guardava con sospetto, e specialmente tra i fedelissimi di Enrico Berlinguer e i giovani, seguaci dell’utopismo di Ingrao o degli eretici del Manifesto. […] Fu del resto questa alterità a impedire a Napolitano di divenire il segretario del Pci, nel 1972. Ci andò vicino, perché era uno dei delfini dell’allora leader, Luigi Longo. Ma scelsero Berlinguer, considerato "un figlio del partito"; e non uno che, parole di Macaluso, "non era visto come sangue puro del Pci". […] Resta un fatto che anche dopo la morte di Berlinguer non divenne segretario, e nemmeno dopo la destituzione di Natta, nell’88. Se lo fosse diventato il Pci avrebbe cambiato nome molto prima dell’89, imboccando da subito la strada della socialdemocrazia. […] Insomma, nel Pci, Napolitano fu sempre minoranza, al punto da sfiorare la rottura con Berlinguer, negli ultimi mesi di vita dello storico leader, quando i comunisti ingaggiarono un corpo a corpo con il premier Craxi sul decreto della scala mobile. Napolitano, che era capogruppo dei deputati del Pci, suggerì inutilmente di ammorbidire quell’opposizione. Una diversità a cui però la storia a un certo punto riconobbe i suoi meriti. Napolitano divenne così il primo ministro dell’Interno ex comunista, sancendo la fine di una discriminante quarantennale, e sei anni dopo il primo ex comunista al Quirinale. "E’ il giorno più importante della sua vita?", gli chiese quella mattina un cronista, davanti alla sua casa nel quartiere Monti. "Ma no, ce ne sono stati di più importanti"» (Concetto Vecchio). Eletto al quarto scrutinio il 10 maggio 2006 con i voti del centrosinistra e confermato al sesto scrutinio il 20 aprile 2013 dietro le insistenze di un centrodestra e di un centrosinistra in pieno stallo politico, nell’arco dei quasi nove anni della sua presidenza conferì al ruolo di capo dello Stato un peso sempre maggiore, prendendo decisioni anche molto controverse: basti citare, tra le altre, il rifiuto opposto nel 2009 al decreto con cui il governo Berlusconi voleva salvare in extremis la vita di Eluana Englaro e, nel 2011, prima la perentorietà con cui ingiunse all’esecutivo la partecipazione dell’Italia alla dissennata guerra di Libia al seguito di Francia e Stati Uniti e poi l’operazione con cui, al culmine di una grave crisi politico-finanziaria, soppiantò il governo Berlusconi con il governo Monti, dando così inizio a una serie di esecutivi consociativi forgiati al Quirinale, proseguita con i governi Letta e Renzi. Direttrice fondamentale della sua presidenza fu l’istanza riformista, nel cui nome spronò continuamente il Parlamento a intervenire sia sulla legge elettorale (il cosiddetto Porcellum) sia (moderatamente) sulla seconda parte della Costituzione: fu proprio su tali basi che accettò eccezionalmente il reincarico nel 2013, e fu ancora su tali basi che, considerata la sostanziale inazione del governo Letta, agevolò l’assalto di Renzi a Palazzo Chigi, a patto che realizzasse tali riforme. Quando però il referendum del 4 dicembre 2016 bocciò clamorosamente la riforma Renzi-Boschi, Napolitano si mostrò assai severo nel censurare il fiorentino, stigmatizzandone avventatezza e smania di protagonismo; analoghe accuse ribadì il 23 marzo del 2018, durante il discorso inaugurale del Senato della XVIII legislatura, rilevando «quanto poco avesse convinto l’auto-esaltazione dei risultati ottenuti negli ultimi anni da governi e da partiti di maggioranza». Colpito da un aneurisma dissecante dell’aorta il 24 aprile 2018, fu operato d’urgenza con successo, e sta attualmente affrontando la necessaria riabilitazione • «Un presidenzialismo di fatto che non poche polemiche ha sollevato. Ma per Napolitano una scelta obbligata, in attesa che passi ’a nuttata. Per far tornare a risplendere la sua stella politica di sempre: l’alternanza. Perché Re Giorgio è stato un sovrano per necessità» (Umberto Rosso). Altri storici soprannomi, tutti allusivi al suo stile elegante e aristocratico: «Re Umberto» (anche per una presunta somiglianza con l’ultimo sovrano sabaudo), «Principe Rosso», «Lord Carrington» • Da sempre convinto europeista, oggi è anche un convinto sostenitore dell’autonomia della politica dalla magistratura (al punto di essersi spesso scontrato con togati ritenuti troppo protagonisti o irriverenti); da presidente della Camera si dimostrò invece piuttosto acquiescente nei confronti dei magistrati di Mani pulite, tanto da agevolare la riforma dell’immunità parlamentare • Sposato dal 1959 con l’avvocato Maria Clio Bittoni, due figli: Giovanni (1961), economista, e Giulio (1969), giurista. «Non sono stati battezzati, con grande dolore di mia suocera. Ma mio marito disse che non voleva» (la moglie) • «È sempre stato […] un moderato, uno di coloro che credono nel lento, faticoso passo della democrazia. Non ama i sogni palingenetici. È convinto, con Isaiah Berlin, che le “utopie come guida al comportamento possono rivelarsi letteralmente fatali”» (Miriam Mafai). «Io non conosco comunisti meno comunisti di Napolitano e democratici più democratici di lui» (Emilio Colombo) • «Non possiamo non dirci liberali».