5 settembre 2018
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Biografia di Sergio Romano
Sergio Romano, nato a Vicenza il 7 luglio 1929 (89 anni). Storico. Giornalista. Diplomatico. Già viceconsole a Innsbruck (1955), primo segretario all’ambasciata italiana a Londra (1958-1964), primo consigliere e ministro consigliere a Parigi (1968-1977), direttore generale per le relazioni culturali presso il ministero degli Affari esteri (1977-1983), ambasciatore presso la Nato a Bruxelles (1983-1985) e ambasciatore a Mosca (1985-1989). Già visiting professor alla University of California a Berkeley (1990) e docente di Relazioni internazionali presso l’Istituto di economia politica dell’Università Bocconi di Milano (1992-1998). «Si è presentato con puntualità impressionante a ogni appuntamento con la Storia: ha visto tutto, conosciuto tutti. Una carriera diplomatica che comincia alla Farnesina nel 1954 e si allunga per decenni, sempre nei luoghi chiave del cambiamento nel secolo breve: Londra, Parigi, Mosca. Titolare di una rubrica di posta sul Corriere della Sera proseguita per 11 anni, ha insegnato ad Harvard e in Bocconi, dato alle stampe una quantità di saggi storici, appunti e memorie» (Gabriele Ferraresi). «Diventai diplomatico per frustrazione, ma avrei voluto fare il giornalista» • «Mia madre era figlia di piccoli commercianti ortofrutticoli, mio padre, provenienza borghesia rurale, divenne col tempo amministratore delegato del biscottificio Saiwa. Da Vicenza ci trasferimmo a Genova, e poi nel 1944, quando le cose si fecero dure per via della guerra, andammo a Milano. Ricordo che nel dicembre di quell’anno, mentre mi avviavo a casa, vidi passare una macchina scoperta e riconobbi Mussolini. Tornava dal suo ultimo discorso tenuto al teatro Lirico. Quell’immagine fugace fu come un’ombra che attraversò il mio sguardo. […] Fu un anno, il 1944, di macerie, morti e distruzioni. Per me fu anche il periodo in cui scoprii la bellezza del teatro». «Ho pochissima memoria del periodo scolastico. I compagni di scuola non hanno mai avuto una parte molto importante nella mia vita e nella mia formazione» (a Claudio Sabelli Fioretti). «Liceo classico, e poi facoltà di Legge. In realtà non avevo ben chiaro cosa avrei fatto nella vita. […] Volevo scrivere. Conobbi Mario Bonfantini, partigiano in Val d’Ossola, professore di francese e fratello di Corrado che era stato comandante delle Brigate Matteotti. Mario scriveva per il Mondo nuovo. Divenni un po’ il suo ragazzo di bottega, lo aiutai nella sceneggiatura del Mulino del Po, anche se il ruolo preponderante il regista Alberto Lattuada l’aveva affidato a Fellini. Era il 1948, avevo anche cominciato a scrivere per il Popolo, allora diretto da Mario Melloni. […] Al giornale avevo cominciato con la cronaca nera, in seguito sarei passato a occuparmi di cinema e teatro. Cominciai anche a scrivere sulla rivista Sipario, creata da Valentino Bompiani, che aveva tra i collaboratori Montale, Moravia, Savinio, D’Amico. Era un osservatorio prezioso e autorevole per il mondo dello spettacolo. Quell’anno feci il mio primo importante viaggio a Parigi. Bompiani mi mise in contatto con Giacomo Antonini, uno degli scout della casa editrice. Viveva da anni in Francia, e fu grande la sorpresa quando il suo nome venne ritrovato in una lista dell’Ovra, come collaboratore. […] Fu un periodo curioso per me. Dovevo decidere cosa avrei fatto della mia vita. Parigi era un luogo promettente; l’Italia un po’ meno. Non sapevo se continuare a fare il giornalista. Andai per la prima e l’ultima volta nel 1951, come critico cinematografico, al Festival di Berlino. Poi ebbi una fellowship per gli Stati Uniti. Mi sentivo a un bivio della vita. Decisi perciò di sparigliare approdando all’Università di Chicago. L’università era celebre per la sua scuola di economia, ma preferii frequentare i corsi di scienza della politica, in particolare quello tenuto da Hans Morgenthau, un insegnante tanto bravo quanto antipatico. Emigrato dalla Germania, allievo di Max Weber, fu l’erede di una visione realista della politica. Stetti un anno a Chicago e ricordo una città molto viva, dove c’erano le migliori case editrici d’America e dove si potevano fare gli incontri più interessanti. C’era Enrico Fermi, che però non ho mai incontrato, e Arnaldo Momigliano, grande storico dell’antichità spesso in dialogo con Leo Strauss. Quando sembrava che l’università sarebbe stato il mio approdo naturale, il console generale mi suggerì di provare il concorso diplomatico. L’anno trascorso a Chicago, l’insegnamento di Morgenthau e soprattutto il suo sguardo sulle relazioni internazionali mi convinsero di poter avere qualche chance nel mondo della diplomazia. Tornai a Roma nel settembre del 1953, e nel 1954 entrai in diplomazia. Il mio primo incarico fu come vice console a Innsbruck. […] Quando entrai in diplomazia, agli inizi degli anni ’50, la classe dirigente era molto nazionalista. Eredi dell’Italia fascista sopravvissero e si incistarono in quella repubblicana. Nella composizione del corpo diplomatico prevalse un’aristocrazia, spesso minore; coloro che non ne facevano parte si comportavano con gli stessi vezzi. […] Consideravo un sentimento legittimo il fatto che tra i miei compiti ci fosse la difesa della patria. Eravamo dei fedeli servitori. Ciò che oggi ci appare retorico allora era accettato. Solo quando giunsi a Londra nel 1958 cominciai a mettere le cose in una prospettiva che spiegasse meglio quanto era accaduto. […] Quando arrivai c’era un governo conservatore che si era insediato dopo la crisi di Suez esplosa nel 1956. Furono le due grandi potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale a dettare le condizioni e le nuove regole internazionali. Francia e Inghilterra erano ormai residui del vecchio colonialismo». «La cosa interessante è che dal fallimento della spedizione di Suez l’Inghilterra è uscita con una sorta di rivoluzione dei costumi. Ha cambiato se stessa. Se lei va a vedere, quello è l’anno degli angry young men, in cui la moda è cambiata, con la minigonna per esempio. Quando lei andava in quegli anni a Portobello, il mercato antiquario, la cosa buffa era che vedeva la bandiera britannica come motivo ornamentale per camicie e gonne. Un orgoglio, ma anche tanta spregiudicatezza nel trattare la bandiera non come un oggetto sacro, ma come un oggetto popolare. La spregiudicatezza nei costumi, la rivoluzione sessuale che noi abbiamo cominciato a fare col ’68, da loro è arrivata prima». «Il cambiamento era iniziato già con il cinema e il teatro, e poi si estese agli altri consumi culturali. Quando andai via, nel 1964, i Beatles non erano ancora quel fenomeno globale che sarebbero diventati nel giro di poco. Confesso che non ne ho mai compreso la grandezza, e forse è un limite. Ma per un appassionato di Puccini era dura accettare quella rivoluzione. […] Arrivai a Parigi il 10 maggio 1968, per ricoprire il ruolo di vice ambasciatore. Il numero uno era Francesco Malfatti. All’inizio quella discesa nelle strade da parte degli studenti mi sembrò una grande festa. Ricordo molti intellettuali e artisti schierarsi dalla parte degli studenti. Jean-Louis Barrault offrì il teatro Odéon, di cui era direttore, per i dibattiti. Gli studenti decisero invece di occuparlo. E André Malraux, ministro della cultura, licenziò in tronco il grande attore. La festa finì» (ad Antonio Gnoli). «Si è trovato a Mosca negli anni del grande cambiamento. "Sono arrivato lì nel settembre 1985, Gorbaciov era stato eletto segretario generale del partito pochi mesi prima. In quel periodo colpiva soprattutto il suo stile innovativo: Gorbaciov esordì con una serie di viaggi all’interno del Paese, per cercare il contatto con la gente, cosa che nessun altro segretario di partito avrebbe mai fatto. Poi, altra novità, viaggiava con la moglie. Le consorti nel sistema sovietico non apparivano”. Lei ha lasciato Mosca prima della caduta del Muro… "Sì, nel marzo 1989, alla vigilia delle prime elezioni pluraliste volute da Gorbaciov"» (Umberto Brindani). «Diciamo che ero scettico su Gorbaciov, mentre De Mita, allora presidente del Consiglio, vedeva dopo la presidenza Reagan la possibilità di una rivitalizzazione del compromesso storico proprio grazie al clima instaurato con la perestrojka. Le mie analisi gli davano molto fastidio. Posso capire. A me invece dette fastidio la sua impressione che facessi questo per una recondita ragione. […] Per un certo periodo mi furono attribuite candidature di cui non sapevo niente. Mi è capitato di fare un pensiero sul Parlamento europeo, da europeista convinto, però il problema non si pose. E poi, l’uomo politico è molto meno libero» (a Mario Baudino). «Nel 1992. Giorgio La Malfa mi chiese se volevo candidarmi con i repubblicani a Torino. Io dissi di no, perché ci tengo, alla libertà». «Dopo Mosca, lei ha chiuso con la carriera diplomatica, e si è messo a fare il professore e a scrivere. Uno dei suoi libri si intitola Memorie di un conservatore. […] “Quando ho ripreso a scrivere a tempo pieno, mi sono trovato nella situazione di chi si deve auto-qualificare, per avere un profilo politico. Bene: mi sono qualificato conservatore perché era la sola sedia libera! In una società che aveva assorbito il credo democratico nella sua ortodossia più conformistica (per dire, neanche Gianni Agnelli avrebbe potuto spingersi più in là del Partito repubblicano), io trovai che da conservatore potevo sostenere di essere liberale ma non egualitario. […] Un conservatore liberale ritiene inevitabile che nella società si formino delle gerarchie, e che esse non rappresentino affatto una patologia, ma piuttosto una necessità. Pensa che dirsi liberal-democratici, col trattino, sia un tentativo di tenere insieme due concetti tra i quali deve esistere una netta distinzione. E crede che termini come ‘merito’ e ‘qualità’ non siano parole vuote”» (Umberto Brindani). Nel frattempo prese a collaborare a varie testate, tra cui La Stampa, Panorama e Limes, e dal 2005 al 2016 curò per il Corriere della Sera una seguitissima rubrica delle lettere, in cui rispondeva ai lettori trattando temi d’attualità, di storia e di politica. «Mi manca. […] Il Corriere però aveva una nuova proprietà, che voleva cambiare: e i giornali devono cambiare, è normale, e d’altro canto io da qualche tempo avevo cominciato a chiedermi come si fa a uscire da una cosa che funziona. Tutto ha una fine. Tranne il würstel, che ne ha due: “Alles hat ein Ende, nur die Wurst hat zwei”. È un proverbio tedesco» • Nel 2010 ha ricevuto il prestigioso premio «È giornalismo» • Tra gli ultimi libri pubblicati, le due biografie Putin e la ricostruzione della Grande Russia (2016) e Trump e la fine dell’American Dream (2017) edite da Longanesi, Guerre, debiti e democrazia. Breve storia da Bismarck a oggi (Laterza 2017) e Atlante delle crisi mondiali (Rizzoli 2018) • Sposato con la statunitense Mary Anne Heinze, tre figli: Beda (giornalista e scrittore a propria volta), Eileen e Luca • «Sergio Romano è uno degli ultimi rappresentanti dell’illuminismo laico volterriano» (Vittorio Dan Segre) • «Per il giornalista il diplomatico è una fonte di informazione; per il diplomatico il giornalista può essere un informatore, spesso poco raffinato, ma anche uno strumento. Quindi le due figure vivono sia in rapporto di cooperazione che di contraddizione. Ci sono almeno due regole comuni per il giornalista e il diplomatico: diffidare di tutto quanto apprendono (entrambi calamitano ambiguità e menzogne) e dire la verità (al loro padrone, governo o editore che sia). Chiamati poi a esprimere analisi e previsioni sulle situazioni, sia il giornalista che il diplomatico rischiano di rimanere schiavi delle proprie previsioni. Ogni previsione non è obiettiva, nasce da un’analisi, ma anche da preconcetti e pregiudizi, e, una volta formulata, finisce col diventare un vero e proprio tiranno. Quindi, il diplomatico e il giornalista non solo devono diffidare di ogni notizia, ma anche e soprattutto di se stessi». «Credo che la vita sia un problema di soluzioni personali. È vero, continuo a essere un buon borghese. O magari mi illudo. […] La vanità di classe è deprecabile, lo snobismo lo trovo in qualche modo indispensabile. […] Il mondo si è parecchio abbassato nella qualità: di pensiero, di giudizio, di comportamento. Se snob è mettersi al riparo da tutto questo, ben venga lo snobismo». «Io non ho mai avuto miti. Con grande delusione mia: perché credere fermamente a qualcosa è sempre corroborante».