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 2018  settembre 05 Mercoledì calendario

Biografia di Wole Soyinka

Wole Soyinka (Akinwande Oluwole Babatunde S.), nato ad Abeokuta (Nigeria) il 13 luglio 1934 (84 anni). Drammaturgo. Poeta. Scrittore. Saggista. Premio Nobel per la letteratura nel 1986. «Sono un combattente compulsivo» • «Appartenente con fierezza all’etnia Yoruba (il popolo concentrato nella parte occidentale del Paese più popolato del continente: circa 110 milioni di abitanti), è stato il primo africano a meritare, nell’86, il Nobel per la letteratura [il primo africano di sangue, oltre che di nascita: era infatti nato in Algeria Albert Camus, insignito del Nobel per la letteratura nel 1957 – ndr]. Autore di romanzi (anche autobiografici, come il diario dal carcere L’uomo è morto) e di saggi (come lo studio su Mito, letteratura e mondo africano), oltre che di liriche e di drammi (in Italia è stato tradotto in gran parte da Jaca Book), è un artefice instancabile di ponti tra la sua amata tradizione autoctona e la rilettura dei classici europei, tra il territorio in espansione della letteratura post-coloniale e quello dell’Occidente che in parte lo ha plasmato (ha studiato in Inghilterra e scrive prevalentemente in inglese). Un viaggio in cui Jung e Nietzsche, Euripide e Shakespeare si sposano con la vitalità complessa dello spirito africano» (Leonetta Bentivoglio) • «Secondo di sei figli, cresciuto in una missione anglicana, […] Soyinka, ribellandosi contro il cristianesimo dei genitori, venne attratto dal culto animista del nonno, che divenne un pilastro della sua formazione culturale» (Giulio Meotti). «Mio padre era insegnante in una missione anglicana. Mia madre aveva un negozio ed era attivista in un movimento per i diritti delle donne». «Il rapporto speciale, di profonda comunione, che mi lega alla strada è stato essenziale al mio modo di relazionarmi col mondo fisico già dai primissimi anni dell’infanzia. […] Certamente quest’unione simbiotica va al di là delle circostanze fisiche, del fatto, cioè, che ci fosse un collegamento stradale tra la città di mio padre, Ìsarà, e quella di mia madre, Abeokuta, dove anch’io sono nato e in parte cresciuto. […] Le commercianti di Ìsarà, che nei giorni di mercato trasportavano in testa, in ceste e fagotti, le merci da rivendere, percorrendo quei sentieri e quelle strade, venivano a profumare le case di Aké, la canonica circondata dalle rocce della mia infanzia. Carovane di donne provenienti da terre lontane, coi piedi dipinti di indaco coperti di laterite rossa, entravano nel cortile, infondendo nell’aura cristiana di Aké il mondo esotico, animistico di Ìsarà». «Io ho sempre letto e scritto molto. […] Mia madre e mio padre mi hanno mostrato il primo test di lettura, che ho fatto a due anni e mezzo». «Già da piccolo, il mio interesse nei confronti della lettura diventò presto un tutt’uno con la volontà di creare storie che fossero mie, frutto della mia invenzione. Ero un lettore vorace. Non ricordo un solo attimo in cui non avessi un libro in mano, in cui non leggessi qualcosa. Allo stesso modo, non ricordo quale fu il momento preciso in cui, invece di ripetere per filo e per segno le storie che avevo letto, cominciai a cambiarne la rotta, a rimaneggiarle a modo mio. Certamente non ho mai pensato, neanche da giovanissimo, che qualcuno potesse fare lo scrittore a tempo pieno. […] Sono cresciuto in un ambiente pervaso di teatro. Sulle strade della mia città sfilavano i cortei degli egungun (maschere ancestrali yoruba). Processioni religiose e secolari riempivano le piazze pubbliche, i mercati. Poi c’erano i riti e le festività stagionali delle divinità tradizionali, e così via. Quando cominciai ad andare a scuola e m’imbattei in un altro tipo di teatro, tutto divenne un continuum nella mia mente e cominciai a sperimentare» (ad Alessandra Di Maio). «Fin da piccolo riceve premi e riconoscimenti per le sue produzioni letterarie, tanto che a 12 anni viene automaticamente ammesso alla scuola più prestigiosa della Nigeria» (Sara Missorini). «Poi ha lasciato la Nigeria e si è trasferito a Leeds, in Inghilterra. “Vinsi una borsa di studio in Letteratura inglese. Un’occasione”. A 23 anni, nel 1957, mise in scena lo spettacolo L’invenzione, prodotto dal Royal Court Theatre. “Avevo realizzato testi teatrali e diretto piccole compagnie anche prima. Ma vedere quello spettacolo in un teatro ‘vero’ fu un’esperienza incredibile. Anche se non fu esattamente una produzione di successo!”» (Vittorio Zincone). «Dopo gli anni in Inghilterra, fui così fortunato da riuscire a tornare a casa, […] con un’autonomia economica che mi permise di essere indipendente. Arrivai col vento in poppa, il primo dell’anno 1960, con una borsa di studio della fondazione Rockefeller, elargitami per studiare le forme teatrali tradizionali. Il mio strumento fondamentale di ricerca era costituito da una Land Rover, che diventò un’estensione della mia persona, il mezzo privilegiato attraverso cui mi relazionavo con la società, con il mondo intero. Con la mia Land Rover mi inoltrai a nord, poi a est, e infine a sud, girando in lungo e largo le coste dell’Africa occidentale, seguendo festival e compagnie teatrali». «In Nigeria […] ha le capacità, la voglia e l’entusiasmo necessari per fondare una compagnia teatrale, con la quale produce una delle sue opere teatrali più note e discusse: A Dance of the Forests» (Missorini). «Il successo arrivò con La danza della Foresta: […] una presa in giro della classe dirigente nigeriana e della disonestà rimasta inalterata nel passaggio dal colonialismo all’indipendenza. “Era un lavoro molto denso. […] La mia testa, allora, viveva un fermento incontrollato. Volevo bombardare il palco con la mia lussuria creativa. E poi ero politicamente in allarme. Vedevo i segni di un disastro che incombeva sul mio Paese e volevo gridarlo forte”» (Zincone). «Nel 1965 è arrestato con l’accusa di avere costretto, minacciandoli con una pistola, i tecnici di una stazione radio governativa a trasmettere un nastro audio con i veri risultati delle recenti elezioni locali. I militari al governo, non potendo alterare i dati, avevano pensato bene di diffondere false informazioni» (Marco Dotti). Quell’anno Soyinka pubblicò il suo primo romanzo, Gli interpreti, «storia di quattro nigeriani tornati in patria dopo avere studiato all’estero, pieni di speranze di cambiamento: “Ho guardato alla mia generazione: ci sentivamo gli ambasciatori del rinascimento africano, i paladini della liberazione del continente. Quelli che sarebbero andati a combattere, non i teorici”. Poi l’incontro con la realtà, i nuovi governanti, “la prima ondata di nazionalisti”, che di fatto “volevano solo prendere il posto dei colonizzatori”. Perciò ciascuno dei protagonisti è, sì, avvocato, ingegnere, giornalista, professore; ma è anche legato a “un compito mitologico”: “Si sentivano umani, ma capaci di attingere ai poteri degli dèi, per combattere la corruzione, lo sfruttamento, quei nemici che erano diventati interni”» (Eleonora Barbieri). «Negli anni che seguono la Nigeria si presenta come un Paese politicamente dominato dal caos e dalla violenza. Il tentativo di Soyinka di evitare la guerra civile facendo pubblici appelli per la pace gli costa nel 1967 una condanna al carcere senza alcun tipo di processo da parte del governo militare, con l’accusa di fomentare e appoggiare la violenza dei ribelli del Biafra» (Mauro Buonocore). «Sono finito in prigione per ventisette mesi, ventidue dei quali in isolamento. Non mi era permesso né leggere, né scrivere: riuscivo al massimo a sottrarre un po’ di carta igienica, e a scribacchiare qualche verso con i fiammiferi usati. Ma avevo pavimenti e pareti su cui incidere con bastoni o pietre, e la matematica mi tornò in mente. Cercai di ricordarmi i teoremi e le equazioni che avevo studiato, e questo mi aiutò a passare una buona parte del tempo» (a Piergiorgio Odifreddi). «Una volta uscito dal carcere, raccontato nel libro The man died nel ’72, l’attivismo culturale e civile dello scrittore è osteggiato e impedito dalle forze militari: non può allestire spettacoli, non può scrivere e pubblicare. Soyinka decide allora di partire per un esilio volontario che inizia dalla Giamaica, dove l’autore fonda una nuova compagnia di teatro tra la gente povera. Per cinque anni resta lontano dalla sua terra, continuando a scrivere e a insegnare soprattutto nelle università inglesi. Quando torna in Nigeria Soyinka è ormai una voce di portata internazionale. […] L’intensa attività intellettuale, il fervore civile che imprime alla sua figura pubblica, l’originalità della sua ricerca intellettuale e letteraria fanno di Soyinka una figura di primo piano della letteratura mondiale, tanto che nel 1986 gli viene conferito il premio Nobel. […] Nel 1994 Soyinka capisce che è arrivato il momento di lasciare di nuovo la sua Nigeria: il governo aveva sequestrato il suo passaporto, poliziotti armati avevano impedito l’uscita di un suo libro, chiunque tentasse di avere contatti con lui veniva perseguitato. Ma la penna di Soyinka non può certo fermarsi fuori dalla Nigeria. Continua a scrivere, di teatro e del suo Paese, […] e continua a battersi per i diritti civili dei popoli e per il diritto della letteratura a parlare a voce alta contro i soprusi» (Buonocore). «La dittatura giunse al suo culmine a metà degli anni ’90, quando l’amico, noto scrittore e drammaturgo, Ken Saro-Wiwa venne messo a morte per le sue opinioni politiche anti-regime. Stessa sorte sarebbe toccata a Soyinka se non fosse stato già in salvo all’estero» (Missorini). Tornò in Nigeria il 15 ottobre 1998, in seguito all’improvvisa morte di Abacha, «dopo che il regime militare ha fatto cadere le accuse di "tradimento" e la condanna a morte. Giunto a Lagos, le sue prime parole sono state in ricordo delle vittime del regime, per coloro "che non sono più accanto a noi, ma si aspettano da noi la continuazione della battaglia"» (Stefano Citati). Da allora, oltre che a scrivere e a insegnare nelle più prestigiose università del mondo, ha continuato a battersi per una riscossa civile della Nigeria, giungendo a promuovere, nel 2005, la fondazione di un movimento politico nazionale nel segno della lotta alla corruzione e della pacificazione sociale. Da sempre nemico di ogni ideologia totalitaria (politica o religiosa), negli ultimi anni è stato tra coloro che con più forza e coraggio hanno denunciato l’espansione dei movimenti islamisti in Africa, invocando in particolare la reazione del governo locale e della comunità internazionale contro i «macellai» di Boko Haram, che hanno quindi emesso contro di lui una sentenza di morte. Assai partecipe anche del dramma delle migrazioni, all’indomani dell’elezione di Trump ha strappato la carta verde concessagli da Carter ai tempi del suo esilio: «Io la definisco la mia "Wolexit", l’uscita di Wole. Un personalissimo modo di protestare contro la retorica xenofoba di Trump. […] Sono anziano, sono stanco. Queste cose non voglio vederle oltre» • Oltre sessanta testi all’attivo, tra drammi teatrali, romanzi (due: Gli interpreti, del 1965, e Stagioni di anomia, del 1973), opere memorialistiche (da L’uomo è morto, del 1971, a Sul far del giorno, del 2007), raccolte poetiche, saggi (da ultimo Africa, del 2012) e sceneggiature, tutti scritti in inglese. «L’inglese mi consente di comunicare con popoli di ogni parte del mondo, di raggiungere persone che non mi sarebbe possibile raggiungere usando la mia lingua nativa o qualunque altra lingua africana. Se mi limitassi a scrivere in yoruba non potrei comunicare con la maggior parte delle stesse popolazioni africane» (a Giuseppe G. Castorina) • «Wole Soyinka è un talento essenzialmente tragico, che si manifesta nelle forme più varie. Poesia e romanzo, saggio, autobiografia e teatro. Ha uno sguardo fiero, una nuvola di capelli bianchi e un sottile sense of humour. A proposito della negritudine di Senghor, disse una volta: "Una tigre non programma la propria tigritudine; piuttosto, la mette in opera"» (Simonetta Fiori) • Otto figli da tre matrimoni: uno dalla prima moglie, una scrittrice britannica; quattro (una delle quali, Iyetade, morta nel 2013, a 48 anni) dalla seconda, una bibliotecaria nigeriana; tre dalla terza e attuale consorte, la nigeriana Folake Doherty, sua ex studentessa sposata nel 1989. «Non credo nella poligamia: sono semplicemente un monogamo seriale» • Anticomunista e antifascista, si definisce socialista • Pur non essendo credente, tra gli Orisha, le figure semidivine della mitologia yoruba, nutre una forte predilezione per Ogun: «Ogun è palesemente il mio demiurgo. È il dio della poesia lirica e della metallurgia, la contraddizione dinamica tra la solitudine e l’imperativo di combattere» • Considera suo «fratello maggiore» Nelson Mandela, che elogiò nel discorso di accettazione del Nobel, quando il leader sudafricano era ancora imprigionato • «Non credo negli aiuti, ma nelle relazioni di mutuo e reciproco profitto. Le donazioni non sono salutari, sono una forma più sofisticata della carità fatta ai lati delle strade. L’Africa ha tante risorse da cui trarre ricchezza. L’Occidente ha la tecnologia e l’esperienza, noi le materie prime. Allora sediamoci a un tavolo e parliamo di sviluppo reciproco». «Senza l’impegno politico non sarei stato lo scrittore e drammaturgo che sono. La letteratura e il teatro mi hanno consentito di elevarmi dall’intollerabile nella società, rispondendo politicamente. Ciò mi ha tramesso la pace per potermi occupare di arte. Il teatro è stato per me lo strumento più efficace per onorare la responsabilità sociale».