5 settembre 2018
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Biografia di Franca Valeri
Franca Valeri (Franca Maria Norsa), nata a Milano il 31 luglio 1920 (98 anni). Attrice. Sceneggiatrice. Commediografa. Scrittrice. Regista d’opera. «Credo di essere nata con il gene dell’attrice. Già da piccolissima mi dilettavo a recitare seduta sul tappeto di casa. I miei genitori intercettarono subito che ero un’esibizionista. Da mia madre ho preso la comicità estrema, da mio padre l’ironia un po’ spietata» • «Nella seconda metà del Cinquecento un autore teatrale di nome Leone de’ Sommi, che in realtà si chiamava Giuda figlio di Isacco Sommi di Portaleone, aveva creato a Mantova, città di origine della mia famiglia paterna, una compagnia teatrale, che si è esibita per lungo tempo alla corte dei Gonzaga. Di questa compagnia, tutta di attori ebrei, faceva parte sicuramente un Norsa, che è il mio cognome. […] Un paio di secoli dopo, verso la fine del Settecento, appare sulle scene di Mantova e di Londra una signorina Fanny Norsa; lo testimonia, in una cartolina che ritrae un quadro, il suo costume impero. Due secoli dopo è toccato a me, dato che mi pare chiara ormai la cadenza bisecolare» • «Papà non voleva che usassi il vero cognome, un po’ perché non era contento del mio debutto da attrice, non ci credeva molto, e poi per timore di possibili persecuzioni: anche se ormai la guerra era finita, eravamo comunque tutti traumatizzati. La scelta di quello finto avvenne per caso: un giorno ero insieme a una mia cara amica, Silvana Ottieri, che stava leggendo un libro di Paul Valéry, e fu lei a suggerirmi “Perché non ti chiami Valeri? Suona bene!”. Accettai il suggerimento, e la cosa curiosa è che, un po’ di anni dopo, incontrai i figli dello scrittore, che mi chiesero: “Siamo parenti?”» • Seconda figlia di un ingegnere ebreo dirigente della Breda e di una casalinga cattolica appassionata d’opera lirica, crebbe nell’ambiente dell’alta borghesia milanese. «Ho avuto due genitori che hanno sempre dato un’importanza fondamentale all’educazione mia e di mio fratello: ricordo la maestra di francese e quella di pianoforte che venivano a casa a darci lezione». «“A 18 anni avevo già letto tutte le opere di Marcel Proust in francese. Ho avuto un’infanzia così. Prima elementare a Milano, in via Fratelli Ruffini; poi quattro anni in via della Spiga, scuola e casa nella stessa strada. Nascondermi in un angolo con un libro in mano era l’unica gioia, l’evasione dalle brutture della guerra e del fascismo”. […] Quando furono promulgate le leggi razziali, lei aveva 18 anni. Che cosa ricorda di quel tragico periodo? “La disperazione di mio padre. Si sentiva in colpa per la catastrofe che sarebbe ricaduta su di noi. Lui e mio fratello trovarono rifugio in Svizzera. Non ho mai compreso il motivo per cui mi lasciò con sua moglie a Milano: forse pensava che mi sarei salvata perché la mamma era battezzata. Chissà come sarebbe andata a finire se un impiegato dell’anagrafe non mi avesse rilasciato una carta d’identità falsa, che mi fece diventare figlia di Cecilia Pernetta, nata a Pavia, e di NN. Il 29 aprile 1945 mia madre cercò d’impedirmi di andare a piazzale Loreto a vedere i cadaveri di Benito Mussolini e degli altri gerarchi fascisti appesi a testa in giù. Ma non riuscì a trattenermi. Ero arrivata a un tale eccesso di odio che non provai nessuna pena. Per me quel truce spettacolo equivaleva al giudizio universale: i buoni da una parte, i cattivi dall’altra”. […] La sua vocazione a stare in scena com’è nata? “L’ho sempre avuta. A cinque anni già facevo le imitazioni in famiglia e cantavo le operette di Franz Lehár, La danza delle libellule e Gigolette”» (Stefano Lorenzetto). «Dopo il liceo, “da persona seria”, decide di andare a studiare recitazione all’Accademia, a Roma. Amici la ospitano, al padre racconta una fandonia. Deve superare l’esame di ammissione: “Prima dell’esame si andava all’Accademia per scegliere un partner fra gli studenti, quello con cui si sarebbe poi recitata una breve scena davanti agli esaminatori. Io ho letto qualche battuta, così, per fauni conoscere, e tutti gli studenti presenti hanno detto ‘Ma questa è bravissima…’, e Buazzelli s’è fatto sotto: ‘Ti aiuto io’”. Tino Buazzelli? “Certo, era lì per studiare anche lui. E c’erano Manfredi, Rossella Falk, tutti che tifavano per me. Invece mi hanno bocciata”» (Maria Giulia Minetti). «Fu un evento fatale. Erano le 13.30 quando, insieme con Tino Buazzelli, mi presentai al cospetto di Silvio D’Amico, Wanda Capodaglio e Orazio Costa con un testo da Les mouches di Jean-Paul Sartre. Erano affamati, andavano di fretta, avevano passato l’intera mattinata a cacciare candidati scadenti. Tino fu accettato, io no. Un mio compagno rincorse per strada D’Amico che andava a rifocillarsi in un caffè a piazza di Spagna: "Presidente, è brava, le ridia una possibilità". Il critico si girò per un attimo verso di me ed esclamò: "Certo non è Olga Villi". Aveva ragione. Ero una ragazza dall’aspetto infantile, di bassa statura, con un cappotto blu e un cappellino tondo. Presi bene la bocciatura: anziché studiare, avrei lavorato. Nella mia infinita presunzione ero convinta che sarei diventata attrice lo stesso. Una cugina di mio padre, che mi ospitava a Roma, mi resse il sacco per tre anni, fingendo con i miei che frequentassi l’accademia». «Andai a scuola da Pietro Sharoff, un regista che veniva dalla grande tradizione russa, già vecchio. Mi faceva notare dei piccoli particolari: lo sguardo che avevo in una scena, il modo in cui tenevo le mani. Minuzie di cui però nessuno si era accorto» (a Nicola Mirenzi). «Divenni amica di Ennio Flaiano, entrai in un giro straordinario di gente molto più grande di me, come i fratelli Francesco e Nicola Ciarletta. La sera recitavo a braccio nelle loro case. Inventavo. In breve divenni la loro vedette». «Il suo talento comico-satirico si segnala nella trasmissione radiofonica Il rosso e il nero, che fa da trampolino a molti futuri interpreti della commedia all’italiana. È qui che Franca Valeri per la prima volta fa conoscere al grande pubblico il personaggio della Signorina Cesira, che, passando successivamente dalla radio alla televisione, diventa la Signorina Snob, nevrotica signora milanese, ritratto delle ipocrisie della borghesia contemporanea» (Maurizio Giammusso). «Debutta sulla scena con Caterina di Dio (1948) scritta da Giovanni Testori (che le scriverà su misura nel 1960 La Maria Brasca), e fa addirittura il cane del Signor Bonaventura in uno spettacolo di bambini diretto da Sergio Tofano. […] Conosce Vittorio Caprioli, allievo dell’agognata Accademia, che ne intuisce la bravura scenica, e i due si fidanzano. […] Caprioli, con il regista Luciano Mondolfo e Alberto Bonucci e altri, concepisce il Teatro dei Gobbi. Siamo nel 1945-46, teatro Arlecchino di Roma. Franca si unisce nell’anno santo 1950. Un teatro veloce, fatto come le réclame della radio. Provano e riprovano i brevi sketch, frutto di una meticolosa operazione. Assieme alla coeva formazione di Dario Fo-Durano-Parenti fondano le basi del cabaret italiano. Con lo spettacolo Cahiers de notes i Gobbi non hanno successo immediato in Italia: troppo sofisticati. Ma in Francia trovano un’ottima risposta» (Enrico Salvatori). «"Gobbo", nel gergo teatrale, è un epiteto: l’equivalente di mascalzone, morto di fame, disgraziato» (Alberto Bevilacqua). «Dopo che il Teatro dei Gobbi […] nel 1950 ottenne un enorme successo a Parigi, D’Amico mi risarcì scrivendo cose bellissime su di me. Finito lo spettacolo, andavamo in un cabaret sulla Rive Droite, vicino all’Opéra. Poi, tutta sola, mi recavo a recitare i miei monologhi alla Cave Saint-Germain, dove si esibiva Juliette Gréco, ancora con il suo nasone originale, accompagnata dal chitarrista jazz Django Reinhardt. Una recensione su Le Monde alla fine ci scappava». «Dopo lo scioglimento dei Gobbi, il gruppo comico formato da me, Caprioli e Alberto Bonucci poi sostituito da Luciano Salce, ho avuto una carriera da donna sola». «Debutta nel cinema nel ’50 con Lattuada-Fellini in Luci del varietà, dove fa la parte di una coreografa ungherese ispirata a una sua imitazione di Gisa Geert, seguita a ruota nel ’52 da Totò a colori, dove la Signorina Snob si “invaghisce” di Pupetto Montmartre des Champs-Elysées, geniale parodia dell’artista modernista inventata dal maestro Scannagatti-Totò. […] Nascono parodie e caratteri al vetriolo, quelli di Alberto Sordi e quelli di Franca Valeri, che in quegli anni fece spesso coppia con lui e che riusciva a essere sgradevole quanto lui, e più sbrigativa, franca e consapevole. Consapevolezza di casta, probabilmente, e di “genere” certamente: di ragazza non particolarmente attraente ma molto intelligente (come la Cesira di Il segno di Venere), di moglie molto cornificata ma anche molto ricca (Il vedovo), di capufficio o corteggiatissima figlia del capufficio (Un eroe dei nostri tempi e Il moralista)» (Emanuela Martini). «Gli anni ’50 si chiudono con lo spettacolo televisivo Le divine, dove reinterpreta tutte le donne dello spettacolo del Novecento in corso. […] Nel 1962 il marito Vittorio Caprioli la dirige nel ruolo della mignottella romana che cerca fortuna a Parigi in Parigi o cara. […] Ormai è artista riconosciuta e amata. Entra in tutti i varietà Rai di Falqui. […] Nel 1968 è a fianco a Gino Bramieri, diretta da Falqui nel remake televisivo di Felicita Colombo (film del ’37 con Dina Galli), nell’80 in Studio ’80 fa delle dissertazioni sui miti dei giovani, mentre nel’82 in Due di tutto (stavolta diretta da Enzo Trapani) inventa una centralinista che racconta la trama di Dallas confondendola con gli spot pubblicitari di cui le tv private inzeppavano i serial. Fa poca pubblicità: rimane alla mente un ciclo di spot molto divertenti per un panettone» (Salvatori). «Ma non basta: legata alla Scala, dove ha maturato la sua passione per l’opera lirica, Franca Valeri si è cimentata come regista di melodrammi, senza negarsi alla televisione. […] Nel 1995 è coprotagonista con Gino Bramieri della sit-com di Canale 5 Norma e Felice, e un anno più tardi è nella fiction Caro maestro. Nel 2000 è accanto a Nino Manfredi in Linda, il brigadiere e…, fiction di successo di Raiuno, e del film tv Come quando fuori piove, diretto da Mario Monicelli. Nel 2001 è tra i protagonisti di Compagni di scuola (Raidue). È inoltre autrice di commedie di successo, come Lina e il cavaliere, Meno storie, Tosca e altre due e Le catacombe» (Giammusso). Negli ultimi anni, se ha diradato le apparizioni in scena, ha però intensificato la sua attività di autrice, pubblicando (presso Einaudi), tra l’altro, un’autobiografia (Bugiarda no, reticente, 2010), due nuove commedie (Non tutto è risolto, 2011; Il cambio dei cavalli, 2014) e testi di riflessioni personali (La vacanza dei superstiti (e la chiamano vecchiaia), 2016; La stanza dei gatti. Una chiacchierata con il teatro, 2017), cui dovrebbe presto aggiungersi Il secolo della noia, attualmente in corso di stesura • «“Non ero brutta, ma, ovvio, non potevo figurare come una maggiorata, e così mi divertivo a dissacrare la figura femminile, scrivendomi spesso i testi su misura: ho inventato una figura di donna piuttosto inedita per l’epoca, lavorando sull’autoironia, su una femminilità che rideva di se stessa anche in modo impietoso. Qualcuno deve aver pensato che avrei avuto difficoltà ad affermarmi, invece sono stata molto fortunata, perché come me non ce n’erano altre! Ero unica nel mio genere: ho inaugurato un filone, che in seguito ha trovato altre protagoniste”. Sono diventate proverbiali la sua Signorina Snob, Cesira la manicure e la Sora Cecioni» (Emilia Costantini). «La Cecioni è nata […] osservando una cara amica, Renata, che di giorno faceva le pulizie a casa mia e la sera era guardarobiera al teatro Valle: possedeva caratteristiche popolari che ho fatto mie, reinterpretandole» • Due i compagni storici: prima l’attore e regista Vittorio Caprioli (1921-1989), con cui fu anche brevemente sposata, e poi il direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi (1937-1995), «che è stato l’uomo della mia vita. […] Sono sempre passata sopra alle scappatelle di entrambi. Penso che un rapporto profondo si basi sul sentirsi importanti per ragioni morali, non sessuali». «Se mi è dispiaciuto non avere figli? Ma io una figlia ce l’ho. Si tratta della mia figlia adottiva, la cantante lirica Stefania Bonfadelli. Sono stata circondata e molto amata dai figli di mio fratello Giulio, Claudia, Francesca e Tommaso, che abitano con le loro famiglie a Milano. E adoro la figlia della mia figlia adottiva: Lavinia, una bimba meravigliosa» • Grande amante degli animali, possiede cinque cani e due gatti, ha fondato l’associazione animalista Franca Valeri onlus e ha aperto un rifugio • Da sempre appassionata di lirica. «Non sono incline a commuovermi. Ma Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti hanno il potere di farmi piangere. La musica è un miracolo. Sono giunta a ipotizzare che sia Dio» • «Porto i capelli così dal 1964, sempre dello stesso colore, un taglio a caschetto creato dai Vergottini. Diffido delle donne che cambiano spesso pettinatura: è indizio di scarsa personalità». «Hanno scritto che ho il Parkinson. Ho preso paura e sono andata a farmi visitare da un neurologo. “È solo un tremito ereditario”, mi ha tranquillizzata. Infatti ce l’aveva anche mio padre, che rideva beffardo quando spandeva sul piattino un po’ di caffè». «“Mi affatico a oziare. Niente e nessuno mi manca più del teatro quando esso non entra nelle mie giornate. Mi sono sempre domandata perché l’uomo l’abbia inventato”. E che risposta s’è data? “L’ha inventato perché il teatro è la bella copia della vita. A teatro il male è più punito e il bene è più premiato. A teatro l’amore è eterno e la morte è finta. Ho cercato d’essere degna di tanto dono”» (Lorenzetto).