5 settembre 2018
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Biografia di Andrea Camilleri
Andrea Camilleri (Andrea Calogero C.), nato a Porto Empedocle (Agrigento) il 6 settembre 1925 (93 anni). Scrittore. Sceneggiatore. Regista. Drammaturgo. Ex docente all’Accademia nazionale d’arte drammatica • «Andrea Calogero Camilleri nasce a Porto Empedocle (la Vigàta dei suoi romanzi) il 6 settembre 1925, all’una di pomeriggio, in un’agiata famiglia di commercianti di zolfo. Quel giorno stesso in città si tiene la processione di san Calogero (di qui il secondo nome), a cui lo scrittore, a modo suo, si professa devoto: “Nel mio paradiso, completamente deserto di santi e di dèi, c’è posto solo per san Calogero”» (Maurizio Assalto). «Mio padre Giuseppe […] aveva fatto tutta la Grande guerra nella brigata Sassari. Adorava il suo comandante: Emilio Lussu. Vide morire Filippo Corridoni. Poi divenne fascista e fece la marcia su Roma. Però, quando il mio compagno Filippo Pera mi disse che non sarebbe più venuto a scuola perché era ebreo, mio padre si indignò: “È una sciocchezza che il Duce fa per il suo amico Hitler”. […] Il matrimonio dei miei genitori era stato combinato. Nozze di zolfo, toccate anche a Pirandello: gli zolfatari facevano sposare i loro eredi per concentrare la proprietà, e ritardare il fallimento cui erano condannati. Però il matrimonio dei miei era riuscito» (ad Aldo Cazzullo). «Nella zona di Porto Empedocle dove sono nato […] i miei nonni avevano una bella proprietà di terreno a mandorle e frumento. Ci andavo finita la scuola. E mia nonna Elvira, essendo io figlio unico, divenne la mia compagna di giochi. Parlava con gli oggetti, inventava le parole, e una volta mi presentò a un grillo con nome e cognome. Fu lei a raccontarmi Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie. Aprì la mia fantasia. Era un personaggio» (ad Antonio Gnoli). «Ero un bambino fragile che si ammalava di frequente, passando delle meravigliose giornate a letto. La televisione non era ancora stata inventata. La radio era intrasportabile. Esauriti i fumetti, soprattutto L’Avventuroso e L’Audace, non restava che chiedere a mio padre di leggere i suoi libri. Mi imbattei ne La follia di Almayer di Conrad. E poi in Moby Dick, di cui capii solo l’avventura, ma non quello che la balena stava a significare. Nella biblioteca di papà, che aveva un fiuto per le buone letture, colsi i primi Simenon, quando ancora si firmava Georges Sim». «Il giovane Andrea legge molto. In seconda ginnasio, addirittura, smette di andare a scuola per starsene in giro a leggere. “E di conseguenza viene mandato in un collegio vescovile, ad Agrigento, su una collina. È stata un’esperienza orrenda, però credo che abbiano pianto di più i miei genitori a stare lontani da me. Ero figlio unico. La sera mi immalinconivo un po’ guardando da lontano le luci del mio paese, di giorno ne combinavo di tutti i colori sperando che mi sbattessero fuori. Le punizioni erano orrende, tipo: stare due ore in ginocchio a meditare sulle mie malefatte, mentre i miei compagni andavano a dormire”» (Paola Jacobbi). «Anche io sono stato fascista. Avevo sedici anni quando il Duce annunciò la guerra: ascoltai il discorso dagli altoparlanti in piazza. Tornai a casa entusiasta, e trovai nonna Elvira e nonna Carolina in lacrime. Tutte e due avevano perso un figlio nelle trincee: “’A guerra sempre tinta è”, la guerra è sempre cattiva. […] Il primo a dirmi che in realtà ero comunista fu il vescovo di Agrigento, Giovanni Battista Peruzzo, piemontese di Alessandria. Leggevo le firme delle riviste del Guf, Mario Alicata, Pietro Ingrao, e mi ci riconoscevo. Ma la vera svolta fu un libro, che mi fece venire la febbre e mi aprì gli occhi: La condizione umana di Malraux. […] Nell’estate del ’42 andai a Firenze al raduno della gioventù fascista. C’era il capo della Hitler-Jugend, Baldur von Schirach, venuto ad annunciare l’Europa di domani: un’enorme caserma, con un unico vangelo, il Mein Kampf. […] Fui richiamato il primo luglio 1943. Mi presentai alla base navale di Augusta e chiesi la divisa. “Quale divisa?”. Mi mandarono a spalare macerie in pantaloncini, maglietta, sandali e fascia con la scritta Crem: Corpo reale equipaggi marittimi. La mia guerra durò nove giorni. Nella notte dell’8 luglio il compagno che dormiva nel letto a castello accanto al mio sussurrò: “Stanno sbarcando”. Uscii sotto le bombe, buttai la fascia, tentai l’autostop: incredibilmente un camion si fermò. Arrivai così a Serradifalco, nella villa con la grande pistacchiera dove erano sfollate le donne di famiglia». «“Grazie alle letture, il mio modo di vedere la realtà era cambiato e la volontà di scrivere era uscita rafforzata. Da Porto Empedocle e da Palermo, dove frequentavo la facoltà di Lettere, mandavo articoli, racconti e poesie a riviste e giornali. Erano messaggi in bottiglia, che talvolta venivano pubblicati, per esempio dall’Italia Socialista di Aldo Garosci o dal Mercurio di Alba de Céspedes”. Gli esordi poetici del futuro romanziere ottennero pure alcuni riconoscimenti importanti. […] La svolta della sua vita avvenne però quando vinse il Premio Firenze per una commedia teatrale inedita: “Il testo non era un granché e infatti, mentre tornavo a casa in treno, lo gettai dal finestrino. Nella giuria però c’era Silvio d’Amico, che mi fece ottenere una borsa di studio per il corso di regia dell’Accademia d’arte drammatica di Roma. Così mi trasferii nella capitale, dove in seguito iniziai a lavorare come regista per diversi teatri, cercando di rinnovare il vecchio repertorio con autori come Adamov o Beckett, di cui feci la prima italiana di Finale di partita”» (Fabio Gambaro). Superato nel 1954 l’esame orale del concorso della Rai, «comincio ad aspettare questa cartolina, questo precetto che mi convochi a Milano, ma non arriva niente. Passano i mesi. Accetto un altro lavoro e dopo qualche tempo mi ritrovo in una cena davanti al dirigente Rai Gennarini. “Vuole sapere cosa è successo, Camilleri? È successo che abbiamo chiesto informazioni politiche ai carabinieri, e quelle che sono arrivate fanno di lei, se non Stalin, qualcosa di un gradino più giù”. […] Un po’ meno di due anni dopo squilla il telefono: “Sono Cesare Lupo, direttore del Terzo programma radio della Rai: vuole sostituire la nostra funzionaria addetta ai programmi che va in maternità? Le farei un contratto di sei mesi per mezza giornata di impegno”. Lo ringrazio, accetto, ma mi sento in dovere di informarlo che al concorso non ero stato preso "perché comunista". E lui mi rispose: “Chissenefrega”. Così entrai, e, a forza di contratti semestrali, passarono dieci anni prima dell’assunzione. […] In tv ho fatto non solo il regista, lo sceneggiatore o il produttore, ma anche un mestiere ingrato: l’ambasciatore dell’ufficio censura. Quello che doveva comunicare agli artisti le decisioni della commissione. Venne in Italia Abbe Lane, per esempio, ed ebbe l’ordine di esibirsi con lo sguardo sempre tassativamente fisso alla telecamera, senza mai voltarsi di schiena per ovvie ragioni». «È la stagione d’oro dei grandi sceneggiati tv. “Quella è stata una grande scuola”, dice oggi Camilleri, che poi, parlando delle trasposizioni televisive dei racconti di Maigret e de Il tenente Sheridan, racconta: “È lì che ho imparato il vero mestiere di scrittore di gialli”. Sempre per la tv, negli anni a seguire si occupa di teatro. Lo fa curando le opere di uno dei maestri della commedia napoletana, Eduardo De Filippo» (Paolo Travisi). «Era il ’67. Mio padre stava morendo e io ho trascorso un mese intero in clinica, accanto a lui. Avevamo tante cose da chiarirci, e oggi posso dire che è stato bellissimo, nonostante la situazione. Un giorno mi chiese di raccontargli una storia: io da tempo avevo in mente quello che poi sarebbe diventato il mio primo romanzo, Il corso delle cose, e glielo raccontai. In siciliano, come si parlava tra di noi. Alla fine, mio padre mi disse: “Promettimi che lo scriverai, e che lo scriverai così come lo hai raccontato a me”». «Il titolo veniva da una citazione di Merleau-Ponty: “Il corso delle cose è sinuoso”. Così è stato. Dissero “no”, per varie ragioni, Lacaita, Marsilio, Bompiani, Garzanti, Feltrinelli, gli Editori Riuniti e altri. Poi dal romanzo si fa uno sceneggiato tivù, e un editore toscano a pagamento, Lalli, lo pubblica senza chiedermi un soldo purché nei titoli di coda appaia il suo nome» (a Ugo Ronfani). «“Quando finalmente ebbi il libro in mano, mi venne voglia di scriverne un altro. Nelle carte di mio nonno avevo trovato un volantino che metteva in guardia i commercianti di zolfo di Porto Empedocle contro un altro commerciante di Licata: da quel frammento del passato presi lo spunto per Un filo di fumo, pubblicato nel 1980”. Fu quello il primo di una serie di romanzi ambientati nella Sicilia del secolo scorso. […] Ma, le basi del successo di massa, Camilleri le costruisce a metà degli anni Novanta, con le prime avventure del commissario Montalbano, La forma dell’acqua e Un cane di terracotta, la cui genesi oggi racconta così: “Di solito non scrivo mai seguendo l’ordine cronologico della vicenda, ma, mentre stavo scrivendo Il birraio di Preston, mi chiesi se sarei stato capace di scrivere tutto un romanzo dall’inizio alla fine, seguendo la cronologia degli avvenimenti. Decisi di fare una prova, scegliendo il genere poliziesco, perché – come ha scritto Sciascia nella sua Breve storia del romanzo poliziesco – impone allo scrittore una specie di gabbia fissa che costringe a seguire un certo tipo di logica e temporalità. Il genere ideale per il mio tentativo. Così è nato Montalbano”» (Gambaro). «Io sono uno scrittore nato per il tam tam del pubblico: non ho vinto premi di risonanza, Elvira [Elvira Sellerio (1936-2010), la sua storica editrice – ndr] non fa nessuna pubblicità, eppure arrivavo a diecimila copie perché la gente si telefonava e, come si consiglia un film, si consigliava i miei libri. Ma il mio pubblico – lo vedevo quando andavo a presentare i libri in libreria – andava dai quarant’anni in su. Poi, con La voce del violino, ho cominciato a vedere ragazzi con l’orecchino: e quando sono arrivati i giovani sono passato a trentamila copie. È vero che intanto io, vergognandomi come un ladro, ero andato a diverse trasmissioni di Maurizio Costanzo per farmi un po’ di pubblicità. E Maurizio me l’ha fatta ad abundantiam: perché, quando uno dice “Comprate Il ladro di merendine: se non vi piace vi ridò io i soldi”, è il massimo che può dire…» (ad Angiola Codacci-Pisanelli). Nacque così la serie del commissario Montalbano, composta ad oggi di una quarantina di titoli tra i romanzi (editi da Sellerio, incluso l’ultimo, Il metodo Catalanotti: in tutto circa 18 milioni di copie vendute) e i racconti (generalmente pubblicati da Mondadori), che proiettò rapidamente l’autore al vertice delle classifiche italiane, godendo anche della felice trasposizione televisiva realizzata dalla Rai a partire dal 1999, con il commissario interpretato da Luca Zingaretti, ex allievo di Camilleri all’Accademia d’arte drammatica. Parallelamente lo scrittore ha continuato a pubblicare testi d’altro genere, quali i suoi romanzi d’ambientazione ottocentesca, testi teatrali (da ultimo Conversazione su Tiresia, Sellerio 2018) e libri di carattere autobiografico e memorialistico, come Esercizi di memoria (Rizzoli 2017) e Ora dimmi di te (Bompiani 2018), lettera aperta alla pronipote Matilda • «Da quando sono diventato cieco, […] per fortuna ho Valentina [Valentina Alferj – ndr], cui detto i libri: è l’unica che sa scrivere nella lingua di Montalbano, anche se è abruzzese» • Sposato dal 1957 con Rosetta Dello Siesto, tre figlie: Andreina, Elisabetta e Mariolina. «Al mercato mia moglie ha più volte ascoltato questa frase: “Vedi quella? È la signora Camilleri, la moglie di Montalbano!”» • Accanito fumatore: «Due pacchetti e mezzo al giorno. Però di ogni sigaretta tiro due o tre boccate e poi la spengo. Più che altro, mi piace averla in mano» • «Sono sempre stato comunista. Persino nel 1956, quando molti se ne andarono dal partito per i fatti di Ungheria, rimasi perché pensavo che, in un mondo spaccato in due, i sovietici facessero bene a tenere sotto controllo la propria parte» • Molto importante, sebbene non privo di contrasti, il rapporto con Sciascia: «Eravamo amici, ma senza intimità». «Io lo chiamo “l’elettricista”, Sciascia. Quando mi sento le batterie scariche, prendo in mano un libro di Leonardo, lo apro, leggo due pagine, e le batterie si ricaricano» • «È come una cassata, e cioè una meravigliosa torta piena di squisitezze, ma zeppa pure di stucchevoli canditi, pesante e indigesta» (Pietrangelo Buttafuoco) • «Nella mia famiglia si parlava sia il dialetto sia l’italiano. Quando mi esibivo con dei raccontini a voce capivo di essere più efficace se usavo una lingua mista. Cominciai a chiedermi perché l’italiano non mi bastava e studiai come Pirandello faceva parlare i suoi personaggi. Più tardi mi colpì la sua affermazione “La lingua esprime il concetto, il dialetto il sentimento di una cosa”: è diventata la base del mio scrivere». «Come ha scoperto mia moglie, Montalbano è al sessanta per cento mio padre. C’è la sua ironia, il senso pratico, la voglia di accomodare, di perseguire la verità senza trasformarsi in rappresentanti dell’Inquisizione. E certi suoi silenzi, un certo coraggio che io non ho». «Uno mi ha mandato una lettera in una busta contenente una sua foto: un uomo sui cinquant’anni, con accanto una signora e due ragazzine. E scrive: “Questa è la mia famiglia. Solo ora mi sento di raccontarle quello che mi è successo nel 2001. Mi era caduto il mondo addosso perché avevo scoperto che la persona che amavo mi tradiva. Ero, e sono tuttora, infermiere all’ospedale di Bari. Rubai del veleno e mi portai a casa ampolla e treppiedi per le flebo. Mi misi a letto e infilai l’ago nel braccio. Siccome la cosa sarebbe stata lunga, presi dal comodino un libro che avevo comprato ma non ancora aperto: Il re di Girgenti. Dopo un po’ mi sono trovato a sorridere, ho staccato l’ago e ho continuato a leggere fino alle cinque di mattina. Tre anni dopo ho incontrato un’altra donna e mi sono sposato. Le devo la vita”. Ecco, quando penso a quella lettera, mi consolo di tante cose, perché penso che, in fondo, tutto quello che ho fatto non è stato inutile».