Avvenire, 5 settembre 2018
I mattoncini Lego verso un futuro senza petrolio
La seconda giovinezza di Lego è terminata. Jørgen Vig Knudstorp è riuscito a prendere un’azienda quasi fallita all’inizio degli anni 2000 e ridarle il suo posto tra le potenze mondiali dei giocattoli; ma la crescita si è interrotta nel 2017 e ora il suo erede, il ceo Niels B. Christiansen, è chiamato a trovare nuove strategie per il rilancio. Arrivato alla guida di Lego la scorsa estate, dopo i soli otto mesi di Bali Padda, primo amministratore delegato non danese di Lego, Christiansen ha davanti due sfide complicate: una economica e una ambientale.
Quella economica è per certi versi la più semplice: si tratta di ritrovare la crescita in un contesto difficile. Nei primi sei mesi dell’anno Lego ha aumentato le vendite dell’1% ma ha sofferto l’effetto cambio. La corona danese si è rivalutata rispetto al dollaro e alle altre valute e questo ha reso meno redditizie le esportazioni, che rappresentano la quasi totalità delle vendite del gruppo. A cambi invariati gli utili sarebbero aumentati, invece sono diminuiti del 4% scendendo a 4,2 miliardi di corone (560 milioni di euro). La crisi dei negozi di giocattoli, con lo storico fallimento della catena americana Toys’R Us, ha ovviamente peggiorato le cose. Lego reagisce alla crisi dei negozi tradizionali aprendo sempre più punti vendita a marchio proprio – ora sono 36 in 13 città e sono in arrivo nuove aperture in Asia – e sviluppando le vendite online. Nel frattempo continua a innovare il prodotto, abbinandolo a produzioni video come quella di NinjaGo e alleanze con le case cinematografiche come quella da cui è nata una nuova linea sul tema di Jurassic Park.
La sfida ambientale è più complicata perché va a toccare l’essenza stessa dei prodotti lego: la plastica. Il polimero che è stato tra i grandi protagonisti dell’evoluzione dell’industria e dei consumi del secolo scorso è diventata uno dei principali nemici degli ambientalisti. Da un lato per l’inquinamento delle acque in cui viene scaricata plastica di vario tipo, dall’altro per la sua stessa natura di derivato del petrolio, e quindi complice indiretto dell’emissione di gas serra e a ricaduta del riscaldamento climatico. All’inizio i mattoncini Lego erano di legno, ma dopo la Seconda guerra mondiale il fondatore Ole Kirk Kristiansen ha scoperto la plastica e ha visto che non c’era paragone. Sono passati più di settant’anni, ma ancora Lego non riesce a trovare niente di meglio della plastica. L’azienda fa mattoncini in Abs, cioè acrilonitrile- butadiene-stirene, materiale plastico impiegato in molti campi per le sue proprietà di resistenza agli urti ed elasticità. Stanziato un miliardo di corone (circa 150 milioni di euro) e assunte un centinaio di persone per studiare plastiche vegetali e abbandonare il petrolio, per il momento Lego non ha trovato nulla di meglio. È complicatissimo, come ha amesso al New York Times il vice presidente con delega alla responsabilità ambientale Tim Brooks. Delle duecento alternative già sperimentate nessuna si è mostrata all’altezza dell’Abs: sono venuti fuori mattoncini dai colori fangosi, dalle forme irregolari o troppo fragili per essere messi in mano a dei bambini. L’azienda non si arrende. «È importante che facciamo giochi che non mettano a rischio» il futuro dei bambini, ha spiegato Brooks: l’obiettivo resta affidarsi a plastiche ecologiche dal 2030.