Il Messaggero, 5 settembre 2018
Pseudonimi e nomi d’arte
Cosa c’è in un nome? Moltissimo, a giudicare dalla quantità di scrittori che preferiscono celarsi dietro uno pseudonimo. Il caso di Elena Ferrante – i primi due episodi della serie firmata Martone de L’amica geniale sono stati presentati al Festival di Venezia – è soltanto l’ultimo in ordine di tempo. Ma perché gli autori spesso preferiscono restare nell’ombra? E, soprattutto: cosa si cela dietro tanti nom de plume? «Contano le opere, non i volti», ripete da sempre la scrittrice (forse) napoletana, che alcuni identificano in Domenico Starnone, o in sua moglie, Anita Raja. Non può certo, l’autrice misteriosa, dire perché abbia scelto proprio Ferrante per nascondersi; meglio lasciare meno tracce possibili; in fondo, come dice lei stessa, «scrivere è un atto di superbia». Il grande Fernando António Nogueira Pessoa – scrittore portoghese molto amato da Antonio Tabucchi – di pseudonimi ne coniò moltissimi: Álvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro, Bernardo Soares. La ragione della sua eteronimia era, come spiegava lui stesso, una «profonda isteria»; ma a volte gli scrittori sono mossi da motivazioni tutt’altro che evidenti. Vediamone alcune.
ATTENTI ALLE SPIE
John Le Carré (al secolo David John Moore Cornwell, classe 1931), a tutti noto per le sue spy story, come La spia che venne dal freddo, ha raccontato una volta di essersi imbattuto nel negozio di un sarto a Londra, dalle parti del Battersea Bridge, con l’insegna le Carré. L’autore spiegò a Paris Review che, a quel tempo stava decidendo dietro quale nome celarsi, a causa della sua professione di agente segreto; aveva una vera ossessione per la moda maschile, e cercava abiti per assecondare la sua passione per la diplomazia.
Fred Vargas è una scrittrice di gialli francese nota per la sua serie di romanzi dedicati al commissario Adamsberg; il suo vero nome è Frédérique Audouin-Rouzeau e di professione fa la ricercatrice. Vargas è lo pseudonimo usato da sua sorella gemella, la pittrice Joëlle, che a sua volta lo ha preso dal cognome del personaggio interpretato da Ava Gardner nel film La contessa scalza. A lei è dedicato il bel thriller Sotto i venti di Nettuno.
COMPAGNI DI SCUOLA
Curzio Malaparte in realtà si chiamava Kurt Erich Suckert; scelse di avviarsi al mestiere di scrittore con ironia, storpiando il cognome di Napoleone. Frequentò a Prato lo stesso liceo Cicognini di Gabriele D’Annunzio, ma del collega rivale disse che valeva «meno di zero» dal punto di vista letterario. Vecchie ruggini? Chissà. Di certo il Vate, che a sua volta aveva un genitore di nome Francesco Paolo Rapagnetta, non avrebbe fatto molta strada se il padre non avesse preso il nome del ricco parente che l’aveva adottato. Hector Schmitz – vale a dire Italo Svevo – scelse lo pseudonimo per sottolineare la sua appartenenza a un mondo di frontiera, al milieu mitteleuropeo. «Fuori dalla penna non c’è salvezza», scriveva. Un altro suo conterraneo, Umberto Saba, faceva Poli di cognome: scelse di cambiarlo per ricordare l’amata balia, Peppa Sabaz.
La scrittrice americana Toni Morrison, al secolo Chloe Ardelia Wofford, era affascinata da Sant’Antonio, quando si convertì al cattolicesimo; il cognome, più banalmente, era quello del primo marito, da cui divorziò negli anni Sessanta. La scrittrice, quando arrivò a vincere il Nobel per la letteratura, nel 1993, si pentì di una scelta «così banale». «Non sono stata stupida? Mi sentii rovinata», confessò.
C’è poi chi è dettato da ragioni sociali. Eric Arthur Blair decise di firmare 1984 con uno pseudonimo, George Orwell, per evitare che la famiglia scoprisse la sua condizione di povertà; sembra che si sia ispirato al nome di un fiume inglese. Allo stesso modo, nell’Ottocento, ci furono donne che preferivano firmarsi con nomi di uomini, più spendibili sul piano commerciale. Le sorelle Brontë diventarono i fratelli Bell; Mary Anne Evans, invece, appose sul manoscritto di Middlemarch il nome George Eliot. In quest’ultimo caso, l’autrice volle anche difendersi dal pregiudizio sociale, in quanto compagna di un uomo sposato, il filosofo George Henry Lewes; solo dopo molti anni ebbe il coraggio di rivendicare le proprie opere. Ci sono poi pseudonimi che suonano come slogan programmatici. Marie-Henri Beyle scelse di firmarsi Stendhal, forse in omaggio a una città tedesca; difficile immaginare un altro suono accostato a Il rosso e il nero, ma non fu che l’ultima scelta di una carrellata di nomi fittizi: Henry Brulard, Louis-César-Alexandre Bombet, Anastase de Serpière, Don Flegme. Celarsi dietro un nom de plume fu la sua vera sindrome. Allo stesso modo, il poeta tedesco Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg è noto a tutti come Novalis: fu un omaggio ai suoi antenati, proprietari di un possedimento nella Bassa Sassonia che si chiamava così.
IL PIÙ GRANDE
Il grande poeta cileno (il «più grande» secondo Gabriel García Márquez) Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, più noto come Pablo Neruda, scelse il pen name forse ispirato dallo scrittore ceco Jan Neruda. Quando gli chiesero le ragioni della sua scelta, disse di non ricordarsi bene come gli venne l’idea; ma, comunque, essere accostato a un personaggio simile non gli dispiaceva affatto. Più suggestiva l’origine del nome dello scrittore giapponese Yukio Mishima, che si chiamava in realtà Kimitake Hiraoka. Durante un viaggio fino alla città di Mishima, sulla linea Tkaid, fu colto dalla bellezza del monte Fuji innevato. La parola Yuki vuol dire neve: per lui fu come un’illuminazione.