Il Sole 24 Ore, 5 settembre 2018
Perché Argentina e Turchia non convincono i mercati
I governi non convincono i mercati. Non durante una crisi. Argentina e Turchia sono solo gli ultimi episodi di una lunga serie di casi analoghi in cui gli Stati si sono rivelati impotenti contro le turbolenze.
Il caso argentino è da manuale. La banca centrale di Buenos Aires ha portato i tassi di interesse fino al 60%, senza ottenere i risultati. Non diversamente avvenne, del resto, nel ’92 quando la Riksbank svedese portò il costo del credito ufficiale fino al 500%, senza ottenere effetti apprezzabili. Neanche il coinvolgimento del Fondo monetario internazionale, ancora da definire, e il piano di risanamento dei conti pubblici presentato dal presidente Mauricio Macri e basato su tasse alle esportazioni hanno commosso gli investitori: il peso, che negli ultimi due anni ha perso il 76% del suo valore, ha continuato a scivolare anche ieri.
La Turchia ha deciso, all’opposto, di non toccare i tassi. Il suo presidente, Recep Tayyip Erdogan, non vuole una stretta sul costo del credito, malgrado la corsa dei prezzi. Neanche questa inazione è piaciuta agli investitori, che ne hanno tratto la conclusione che la banca centrale è asservita all’agenda politica del presidente e quindi priva di credibilità. Le misure amministrative – come per esempio le tasse sui conti in valuta estera e l’abolizione delle imposte sui conti in lira turca – hanno ottenuto pochi risultati. La lira turca ha perso il 40% da inizio anno e anche ieri ha continuato la sua flessione per i timori – appunto – che la banca centrale deluderà gli investitori nella sua riunione di politica monetaria la settimana prossima.
Le banche centrali, però, sono le uniche che potrebbero fare la differenza. A patto di non fare troppo poco troppo tardi. Tasse e misure amministrative sono troppo lente, troppo brutali. I governi possono al massimo vietare le contrattazioni – ma non sulle valute estere, di cui hanno bisogno! – e il risultato spesso è quello di peggiorare la situazione: nel 2010 la Germania vietò vendite allo scoperto e compravendite su alcuni strumenti “speculativi”, ma il risultato fu un aumento delle turbolenze, mentre gli investitori si spostarono a Londra.
Le banche centrali invece intervengono davvero e regolarmente sui mercati e con i tempi dei mercati. ottengono risultati perà solo se credibili. I tassi incidono solo su una porzione limitata del mercato monetario, su alcune scadenze molto brevi, le quali a loro volta possono incidere sul mercato valutario, ma in modo indiretto. Le aspettative – come è giusto che sia nel momento in cui intervengono valutazioni e giudizi umani – hanno un ruolo più importante. La stessa misura, per esempio un rialzo dei tassi, può avere allora effetti opposti a seconda del contesto e delle circostanze in cui cade. L’Argentina, come la Svezia a suo tempo, lo stanno sperimentando in queste ore: hanno fatto troppo poco, e troppo tardi. Per di più – nel caso di Buenos Aires – senza credibilità. In una situazione diversa gli investitori potrebbero temere che la banca centrale, dopo aver alzato i tassi, acquisti sui mercati valuta nazionale e facendola apprezzare. Per far questo occorrono però valute straniere da vendere. L’Argentina ha ceduto ieri 100 milioni di dollari di riserve valutarie, senza frenare la flessione del peso: ne occorrerebbero molte di più, mentre nei due paesi sono gravemente insufficienti: a fine 2017 erano pari, a Buenos Aires, al 42% del debito a breve termine, e ad Ankara al 52%.
Il minimo accettabile è il 100%: ogni Paese deve avere “in cassaforte” le risorse per ripagare i debiti a un anno nel caso di un blocco dei flussi di capitale. Altrimenti gli investitori sono ragionevolmente tenuti a non temere un intervento delle banche centrali ma a preoccuparsi piuttosto per i loro crediti: in Turchia l ’esposizione con l’estero a un anno è pari a 179 miliardi di dollari, il 21% del Pil 2017.
Se non costruiscono nel tempo credibilità e fiducia – mantenendo il sistema economico in equilibrio, per esempio – i governi non hanno quindi strumenti per intervenire in un mondo frammentato come i mercati, tantomeno durante una crisi: in economia la “sovranità” degli Stati – ammesso che non sia una finzione giuridica, come suggeriva Hans Kelsen – ha poco senso. Se ne discuteva già nel 700, quando durante le carestie i governi bloccavano i prezzi. Con il risultato di prolungare l’agonia: prezzi più alti avrebbero fatto aumentare la produzione e incentivato le importazioni.