il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2018
Parigi corsara del petrolio
Le dichiarazioni concilianti di queste ore sono cortine di fumo, dietro cui ci sono divergenze d’interessi e soprattutto d’ambizioni, specie, se non esclusivamente, tra Italia e Francia, almeno in campo occidentale – gli Usa vogliono solo restarne fuori. L’Italia vanta sulla Libia l’eredità coloniale, pesante, ma concreta; una presenza energetica importante con l’Eni; e legami istituzionali concretizzati nel Trattato di Bengasi del 2008 la cui attuale rilevanza politica e giuridica è discutibile, ma non è a priori nulla. Ma al primo posto c’è, in questo momento, la questione migranti: chi controlla le coste libiche controlla i flussi verso l’Italia.
Parigi, che si sente una sorta di tutore, o interlocutore privilegiato del Nord Africa, digerisce male il primato dell’Italia in Libia, gioca gli interessi della Total contro quelli Eni, non accetta l’idea, condivisa dagli americani, d’una ‘cabina di regia’ italiana per il Mediterraneo.
La guerra del 2011 anti-Gheddafi nasceva, in parte, dal desiderio di Sarkozy di rimpiazzare in Libia un’Italia ‘azzoppata’ dall’amicizia di Berlusconi per il Colonnello. L’azione di disturbo di Macron è in apparente contraddizione con l’interesse di sicurezza francese nei Paesi sub-sahariani, Ciad, Niger, Mali. L’Italia, sul finire del 2017, aveva dato un’eco positiva alle richieste francesi, accettando di trasferire in Niger una parte del suo contingente afghano – circa 500 uomini -, sempre con la missione di contrastare il terrorismo integralista.
Roberto Aliboni, dello Iai, forse il massimo esperto di Libia italiano, colloca quanto sta avvenendo “nel contesto del degrado politico complessivo che la Libia sta subendo”, escludendo che si tratti “di una pura e semplice guerra di bande criminali e mafiose”. Strada facendo, “il piano d’azione dell’Onu – osserva Aliboni – ha perso il processo di dialogo e ricomposizione politica che, tramite la Conferenza nazionale e il referendum sulla Costituzione, doveva fondare un forte consenso e una ritrovata coesione sociale”: sono rimaste solo le elezioni politiche.
Anche Macron punta al voto, ma sostituisce al processo dell’Onu “un traballante accordo di vertice fra i poteri in essere (Serraj a Tripoli, Haftar a Tobruk)”. Le elezioni di Macron sono viste in Libia come un modo per escludere più o meno legittimi protagonisti e per preparare la spartizione del potere fra i presenti alla conferenza di Parigi del 29 maggio, con la presidenza della Repubblica per il generale Haftar. Di qui, il risveglio dei conflitti e l’attacco a Tripoli: resta da vedere se si tratti di una mossa pro o contro Haftar, che è anche l’interlocutore privilegiato di Egitto e Russia.
A Macron, che chiedeva appoggio al suo piano, il governo italiano ha risposto che il problema “non è tanto fare le elezioni quanto preparare un consenso costituzionale che porti a elezioni credibili”. E l’Italia sta preparando, come indicato da Conte in visita a Washington il 30 luglio, una conferenza a Palermo cui saranno invitate tutte le parti libiche, quelle che erano a Parigi e, soprattutto, quelle che non c’erano. “La crisi – osserva Aliboni – rafforza le motivazioni politiche dell’iniziativa italiana ma ne rendono assai più difficile la realizzazione”.
Indire la conferenza, però, non basta. Bisogna arrivarci con una proposta, per rilanciare e riproporre il processo di coesione e consenso che Salamé non ha potuto o saputo realizzare. L’iniziativa – prevede Aliboni – avrà il sostegno di Onu e Usa e consensi in Europa specie tedeschi. Ma, per avere successo, ci vuole “un consenso europeo e quindi uno sforzo cooperativo verso la Francia (e non la canea anti-francese di queste ore)”.