la Repubblica, 5 settembre 2018
Un ponte di carbonio
L’Halls River Bridge in Florida, piantato da 60 anni nell’acqua salmastra, era in pessime condizioni come il Morandi di Genova. Il ponte di 60 metri oggi è in ricostruzione con un materiale innovativo: calcestruzzo con fibre di vetro al posto dei tondini di ferro, per resistere alla corrosione. A guidare i lavori è una grande ditta italiana, mentre l’armatura in fibre di vetro arriva da una piccola azienda di Angri, Salerno. Il prototipo di questi ponti in materiali compositi (soprattutto fibre di vetro o carbonio) era stato costruito senza un grammo di metallo nel campus dell’università di Miami, con l’aiuto degli studenti di ingegneria. A guidarli Antonio Nanni, laureato a Bologna, oggi professore di ingegneria strutturale a Miami: «Costruire infrastrutture più durature rispetto alle attuali è possibile, grazie ai nuovi materiali. Se la vita di servizio di un ponte realizzato negli anni ‘ 60 era 50 anni, oggi arriviamo a 100 o 150. Le ditte italiane sono all’avanguardia». Il collo di bottiglia sono le leggi, che per le grandi opere pubbliche nel nostro paese sono assai rigide rispetto all’introduzione di nuovi materiali. «Anche con le migliori tecnologie, senza norme non si può progettare e costruire. Così le aziende della penisola vengono spesso chiamate a lavorare negli Usa», conclude Nanni.
Il problema non riguarda solo il cemento armato. «Poco usati in Italia sono anche gli acciai ad alta resistenza e gli acciai inossidabili, nelle formulazioni più innovative» aggiunge Vincenzo Piluso, che insegna Tecnica delle costruzioni all’università di Salerno ed è visiting professor al Nagoya Institute of Technology, Giappone. «Eppure la normativa europea per le costruzioni in acciaio, l’Eurocodice 3 del 1993, ammette l’impiego di questi nuovi materiali». Per quanto riguarda la struttura, ci sono opere capaci di “autoricentrarsi” se si inclinano. «In Nuova Zelanda – prosegue Piluso – dopo il terremoto 7.1 a Christchurch nel 2010, alcuni edifici sono stati ristrutturati in acciaio con questo metodo. Con il sisma successivo, un 5.9 nel 2016, si sono comportati molto bene».
A New York del monitoraggio dei ponti si occupa tra gli altri Raimondo Betti, romano, docente di ingegneria civile alla Columbia University. «Il ponte di Brooklyn risale al 1883. Da allora la resistenza dei tiranti di acciaio è quasi raddoppiata. La tensione di rottura, che era 1080 megapascal, oggi raggiunge i 1.800». Per i controlli, da sempre affidati a team di ingegneri che ispezionavano le infrastrutture ogni due anni, metro per metro, usando nient’altro che i loro occhi, oggi si possono usare dei sensori. Sono strumenti diffusi solo a macchia di leopardo negli Stati Uniti, ma assenti (con rare eccezioni) in Italia. «Tramite gli accelerometri si studiano le vibrazioni durante il traffico normale», spiega Betti. «Se nella struttura ci sono fessure, infatti, la sua rigidità diminuisce». Sui cavi dei ponti sospesi possono essere piazzati sensori che misurano le onde elastiche (una sorta di microfoni): «Anche un piccolo filo, un singolo elemento del cavo, se si rompe genera un’onda sonora. Idem per le fratture del cemento». Le antenne gps registrano spostamenti di pochi centimetri, così come i laser: se mirati a punti precisi di una struttura, ne rilevano le deformazioni. «Sul Manhattan Bridge – prosegue Betti – monitoriamo anche temperatura, umidità e corrosione».
Sempre l’Italia, e sempre in trasferta, alle Olimpiadi di Atene del 2004 ha raggiunto una delle frontiere delle grandi opere pubbliche: la copertura dello stadio di Atene – progettata da Santiago Calatrava con la sua ben nota passione per gli estremi – costrinse i tecnici di una grande azienda di Pordenone ad arrampicarsi a 76 metri di altezza con 18mila tonnellate di archi e tiranti in acciaio. Performance da medaglia d’oro, replicata nel 2010 con lo stadio di Soweto per i mondiali in Sudafrica. «Siamo in un periodo di contrazione del mercato interno, così le nostre aziende finiscono per lavorare soprattutto all’estero», spiega Piluso. «Sembra che in Italia non siamo più in grado di programmare le grandi opere di cui il paese ha bisogno, né di completarle nei tempi previsti».
Paese di terremoti e città costruite sul mare, eppure la penisola sarebbe una palestra perfetta per l’ingegneria del futuro. «Una delle preoccupazioni nelle zone costiere è la corrosione dell’acciaio che rinforza il calcestruzzo», spiega Nanni. «Le barre di fibra di vetro o carbonio impregnate di resina superano il problema». Questi materiali compositi in Italia possono essere usati solo per le fasce di rinforzo degli edifici già lesionati dai terremoti. Sono consentiti da noi i cementi che contengono cristalli (il più usato è il quarzo) per evitare l’allargamento delle crepe. Non sono invece ammessi i cementi impregnati di polimeri (sostanze plastiche: in genere si usa il polipropilene), che impediscono all’acqua di penetrare nel cemento e spaccarlo se ghiaccia, molto diffusi negli Usa.
Non è un caso che gli Stati Uniti siano all’avanguardia. Il 2 agosto il Congresso ha avviato l’"Imagine Act” per finanziare “la ricerca e l’uso di materiali e tecniche innovative nella costruzione e conservazione di infrastrutture per i trasporti” con almeno 18 milioni all’anno per 5 anni. La norma riguarda nuove miscele di cemento ad alte prestazioni ( cioè con percentuali ben precise di acqua o aria, o molto regolari nella granularità), materiali geosintetici (maglie o tappeti che stabilizzano i terreni e rallentano l’erosione), metalli o leghe speciali, materiali compositi (le fibre di vetro o carbonio), vernici anti-corrosione.
Se pensiamo a ferro, malte o vernici, non ci viene in mente certo il futuro. Eppure le loro prestazioni sono talmente migliorate che le università americane, da tempo, si sfidano ogni anno in una gara di canoe in cemento.
Per alleggerire e irrobustire il calcestruzzo oggi vi vengono aggiunti (ma i costi sono insostenibili: siamo nel campo della ricerca) nanomateriali, idrogel, aerogel, schiume a base di alluminio, enzimi che facilitano le reazioni chimiche o batteri che depositano sedimenti di calcio nelle fratture. Il sogno più grande sarebbe realizzare cemento sulla Luna partendo dal minerale del luogo, la regolite. Nel ’94 gli astronauti dell’Endeavour riuscirono a produrre qualche grammo di calcestruzzo nello spazio. Il cilindretto si consolidò regolarmente in condizioni di microgravità. «La conquista del satellite – sorride Nanni – ci deve ricordare che abbiamo il capitale umano e tecnologico per rispondere alle grandi sfide. Anche nella costruzione delle opere di ingegneria».