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 2018  settembre 05 Mercoledì calendario

Mogol: «Con Battisti una coppia formidabile. Ma fui io a consigliargli di ritirarsi dalle scene»

Sono trascorsi vent’anni dalla morte di Lucio Battisti, era il 9 settembre 1996 e quel giorno un senso di smarrimento attraversò il paese per la scomparsa di uno dei più grandi protagonisti della musica italiana e della cultura popolare. I suoi maggiori successi, quelli nati dal sodalizio artistico con Mogol, 50 anni dopo mantengono una forza straordinaria e continuano ad essere fonte d’ispirazione per tanti artisti.

«Scrissi una lettera a Lucio poco prima che morisse, gliela feci arrivare attraverso un’infermiera dell’ospedale in cui era ricoverato che, per caso, avevo conosciuto a una cena. Gli scrissi due righe, gli dicevo che speravo potesse riprendersi e che per qualunque sua necessità io c’ero, ma non seppi nulla per dieci anni dopo la sua morte. Poi seppi che leggendo quella lettera Lucio aveva pianto: sapeva di essere condannato».
Com’erano alla fine i vostri rapporti?
«I rapporti personali non sono mai cambiati. C’era stata però una mia decisione presa per ragioni di principio. Ritenevo che dovessimo partecipare agli utili in modo eguale visto che avevamo scritto uno la musica e l’altro il testo. Non fu possibile. Ma in seguito Lucio accettò un mio invito come niente fosse, tra noi non era cambiato nulla».
Il vostro incontro vi cambiò dal punto di vista artistico?
«A me non cambiò nulla: con tutti gli autori ho sempre seguito il senso della musica, frase per frase. Cerco di capire il testo che è dentro la musica, ho sempre fatto così. E ho sempre fatto riferimento ai ricordi reali: "Il carretto passava e quell’uomo gridava: gelati" è la mia infanzia. Ero bambino e ogni dieci giorni passava il gelataio, io correvo dalla mamma a chiederle 10 lire ma sapevo che dopo una certa data i soldi non c’erano più, neanche per me».
Con Lucio non discutevate i testi?
«Io scrivevo ascoltandolo suonare e Lucio se aveva bisogno di chiarimenti mi chiedeva, tutto qui: il giorno dopo sapeva tutto a memoria, mai visto con un foglietto in mano, era serissimo, una bomba, di un livello fantastico, davvero internazionale».
Il suo tentativo di avere successo all’estero con l’album in inglese però non funzionò.
«L’apprezzamento all’estero per il nostro lavoro era forte: un giorno venne da me dicendo che i discografici americani dei Beatles gli avevano offerto un contratto che gli avrebbe garantito il 75 per cento dei diritti e la pubblicazione in tutto il mondo. Lui gli aveva risposto di no. Ricordo anche che al Cet venne un giornalista italo-americano che aveva fatto un’intervista a Paul McCartney: l’ex Beatle si era presentato con i dischi di Mogol-Battisti chiedendogli la traduzione dei testi. Non mi stupii».
Quale album o canzone ama di più?
«La parte musicale di Anima latina.
È un capolavoro assoluto, mi dà ancora i brividi».
I vostri primi successi furono affidati ai Dik Dik, ai Ribelli, all’Equipe 84, ma lei convinse Lucio a cantare.
«Inizialmente non voleva ma la migliore versione per me era sempre la sua. Ho litigato con tutti per questo, a cominciare dalla Ricordi. Ho anche minacciato le dimissioni».
La Poncia, la sua villa in Brianza, fu il vostro luogo di lavoro prediletto.
«Cominciammo a incontrarci lì per una settimana all’anno. Scriveva dieci-dodici pezzi e poi veniva a farmeli sentire. Era un uomo tranquillo, l’hanno accusato di essere scostante e ruvido ma reagiva solo quando qualcuno si comportava senza tatto con lui».
In 15 anni come si è evoluto il vostro rapporto?
«È rimasto sempre lo stesso, erano le canzoni a cambiare. Lucio era costante, tranquillo, sereno, studiava i più grandi, da Otis Redding a Frank Zappa. Nessuno aveva neanche la metà delle sue conoscenze musicali. Anch’io sono rimasto lo stesso, del resto i più grandi successi mondiali li ho fatti prima di conoscere Lucio. Hanno calcolato che nella mia carriera ho venduto 523 milioni di copie nel mondo».
Che idea si fece della volontà di Lucio di ritirarsi dalle scene?
«Glielo consigliai io. Almeno all’inizio. Poi si convinse da solo.
Negli anni Settanta fecero piangere De Gregori quando lo accusarono, lui di sinistra, di essere uno sporco miliardario. E il ’68 era stato una follia: o eri falce e martello, Mao Tse-tung o eri un fascista. Gli dissi: "Non andare più in giro, finiranno per sputarti addosso, meglio stare a casa che essere contestato nei concerti"».
Vi accusarono di essere fascisti per i "boschi di braccia tese" nel testo di "La collina dei ciliegi".
«Ma era un’invocazione: i palmi, levati uno verso l’altro, sono diventati saluti fascisti. Una follia».
Lucio smise però anche con la televisione.
«Era poco propenso già da prima.
Teatro 10 con Mina nel ’72 glielo feci fare io. Del resto lo seguivo quando andava a fare quelle puntate, ci mettevo anch’io le mie idee. Lui però era una macchina da guerra in studio di registrazione, suonava tutti gli strumenti».
Infatti si è ritirato facendo solo dischi, quelli senza di lei. Che giudizio ne dà?
«Aveva cambiato il modo di lavorare, ora scriveva musica sui testi. Quando venne a trovarmi gli chiesi perché avesse scelto di scrivere la musica su testi nonsense. Mi rispose: "Avevo due strade, o scrivevo su testi in inglese o su testi nonsense". Mi ha spiegato che non voleva si facessero paragoni con le canzoni che avevamo scritto noi».
Ha mai pensato di tornare a lavorare insieme?
«Mai. Prima di conoscere Lucio per quattro anni di fila ero stato votato come miglior autore. Avevo già molti successi, una mia canzone aveva vinto il Festival di Sanremo.
Eppure avevo accettato di essere pagato meno di quanto veniva pagato lui. In seguito, proprio pensando al mio caso, la Siae corresse, ma più tardi lui non volle dividere a metà le edizioni. Avessi ceduto per tornare insieme non mi sarei rispettato e io tengo moltissimo all’autostima: l’ultima compagna di fronte alla morte. Se hai stima di te stesso hai almeno un compagno al tuo fianco».