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 2018  agosto 28 Martedì calendario

Sensuali, libere e ambigue: ecco le muse dei pittori

La donna come conditio sine qua non della creatività dell’artista, fonte di ispirazione da cui non poter prescindere: sarebbe ottima premessa per una rivendicazione di genere con qualche pretesa di stile. Ma ci sono sottotitoli più circoscritti ed intriganti, capaci di fomentare discriminazioni interne e ad esempio, c’è una bella differenza tra essere una modella o invece una vera musa. Puoi posare per ore, essere più o meno pagata, flirtare con chi ti ritrae. E poi uscire dall’atelier come dalla sua vita, non sei diventata il chiodo nel cervello, l’immagine mentale, l’assenza ostinata da liberare ad ogni costo sulla tela o nella materia. Lo ha detto bene Vincent Van Gogh: «Non tutte le donne sono fatte per divenire donne di pittori» (lui che pure non ne ebbe mai una per davvero). Pierre Bonnard deve a Marthe – che incontra per le strade di Parigi nel 1893 e comincia subito a ritrarre – il salto dal soggetto femminile alla sensualità del nudo nei «corpi-colori». E certo gli interni per le sue tele in una stanza da bagno, con la vasca ormai più famosa della storia dell’arte che lei rigorosamente volle, quando lo sposa trentadue anni dopo. Donna «misantropa», con qualcosa del volatile selvatico, che ama immergersi in acqua, alle origini del «canone bonardiano». Le Nu à la bagnoire del 1937 raramente esce dal museo di arte moderna di Parigi, venne acquistato dalla città proprio in occasione dell’Esposizione Internazionale di quell’anno. Si trova ora in mostra al museo Bonnard a Le Cannet – titolo dell’esposizione: Inspirantes Inspiratrices, fino al 4 novembre – sulle alture di Cannes, da dove puoi guardare il mare senza subirlo, come fece «Le nabis japonard» nei suoi ultimi vent’anni, dalla casa atelier Le Bosquet. Venne a posarci anche Dina Vierny, prediletta da Aristide Maillol, il Rodin del ’900, per cui posa già a quindici anni. Si è sempre schermita definendosi un suo strumento. Solo una modella. Ma il rovello dello scultore la smentisce: «Non è mai la stessa, non ha mai la stessa forma, è diabolico arrivare alla verità con questa ragazza». È lei l’Harmonie in mostra, con le palpebre abbassate per poter continuare a studiare mentre è in posa, senza braccia perché opera ultima dell’artista ottantenne che non arriva a finirla. Lui non vuole copiarla ma farla come un’idea e lei ne sarà l’erede in senso letterale.
Può bastare un dettaglio a scatenare quell’intimità carica di tensione. Per Toulose-Lautrec sono i capelli rossi, comune denominatore delle donne di A Batignolles e Femme rousse dans le jardin de M. Forest, afferrate en plein air con larghi colpi di spatola. E in Le Bas rouge di Paul Signac la calza rossa che Berthe si riavvolge nel ritratto dipinto subito dopo l’incontro al Cabaret du chat noir, sarebbe il particolare più erotico della mostra, se non fosse per La nuca di Misia di Edouard Vuillard, capolavoro di desiderio muto inscritto nello stretto formato giapponese del kakemono caro ai nabis. Venerata dagli artisti che collaborano a La revue blanche diretta dal marito Tadhée Natanson, pianista di talento, Misia fu forse la prima donna magnetica per molti di loro, Bonnard, Vallotton (Misia à son bureau) il Toulouse- Lautrec che ha nelle sue corde la verità sulfurea di un suo ritratto imbronciato. Con una musa il legame è un coltello a doppio taglio, la dipendenza si tende in senso contrario all’ansia di libertà. Lydia sarà la Dina di Matisse («Quando lei si avvicina io sono guarito») ispiratrice di circa 90 dipinti e centinaia di disegni. Eppure: «Quando dipingo, non creo una donna, faccio un quadro». E forse Bonnard scorre nella stessa direzione, con i profili e i contorni di corpi senza volto che si sovrappongono pochi giorni dopo il suo matrimonio si uccide Renée, amore clandestino che nella Jeune fille au coursage rouge tradisce l’emozione di chi guarda – quasi animato dal bisogno segreto di dissolvere un’identità per poter arrivare a dipingere solo «il corpo della pittura». 
Se è attraverso la postura, lo sguardo di lei che l’artista esprime emozioni sue, c’è tutto Pascin, anagramma del bulgaro Pincas, nel Portrait d’Hermine David au chapeau à fleurs con le braccia serrate sullo stomaco, compagna di notti parigine di questo ulteriore principe di Montparnasse della cerchia dei maudits, raccontato da Hemingway, alcolizzato e pittore geniale che si taglia le vene mentre è atteso per un suo vernissage.
Il pregio di questa selezione che va dalla fine dell’800 agli anni ’60 il museo Bonnard conta per convenzione sulla expertise del museo d’Orsay e dell’Orangerie – è anche quello di accendere un faro sul femminile in pittori molto noti ai colleghi noti. La Jeanne di Manguin, la Nono di Lebasque, la Lola di Charles Camoin, uno dei primi «fauvisti» che può vantare con Matisse la lunga frequentazione di Cézanne. Con Bella di Chagall, Annette di Giacometti, la Jacqueline ultima sposa di Picasso che «ha il dono di diventare pittura ad un grado inimmaginabile». Tutti artisti gravitanti in questa Francia del sud dove Le Cannet sta a Bonnard come Aix- en- Provence a Cézanne o Nizza a Matisse. 
Una musa vera è per sempre, in ogni senso. Marthe mente da subito a Bonnard, non è Marthe de Méligny di nobile lignaggio, ma Maria Boursin figlia di carpentiere e più vecchia di quanto lui creda. Solo che non ti liberi da una musa per una menzogna, anche dopo trent’anni. Tanto più se sai che con lei puoi dipingere nudi che si sfanno nel colore, metamorfosi luminose di carne languida nell’acqua. E quando muore pensi che sia sola al mondo, perché te lo ha sempre detto. I nipoti di Madame Bonnard metteranno in moto uno dei più famosi processi della storia dell’arte: centinaia di tele, migliaia di disegni, fermati nel tempo per decenni dalle bugie di una musa.