Corriere della Sera, 28 agosto 2018
Ponti spezzati, la fantasia degli scrittori «apocalittici»
Peccato che pochi, in questi giorni seguiti al disastro di Genova, si siano ricordati della visionarietà dei nostri scrittori. Che con troppa leggerezza vengono accusati di pessimismo disfattista, specie i poeti, tristi, deprimenti, malinconici, sfiduciati. Tutti insopportabilmente apocalittici, nostalgici, sempre anti moderni e anti tutto. Così ostili alle «magnifiche sorti e progressive». Lasciando da parte il solito Pasolini sempre invocato, basterebbe leggere alcune pagine di Calvino, Cassola, Volponi, Ortese, Rigoni Stern, Zanzotto, per trovare con trenta, quaranta, cinquant’anni di anticipo il presentimento dell’oggi. E ci sono anche gli scrittori-ingegneri, che in fatto di costruzioni (oltre che di umanità) la sanno lunga.
In un racconto del 1940, l’ingegner Carlo Emilio Gadda ironizzava sulla «perizia» di un suo collega, professore al Politecnico di Milano, che in una «laboriosa città della pianura padana» un giorno condusse un gruppo di alunni a visitare una «struttura in calcestruzzo armato», che lo stesso architetto costruttore proponeva a modello. Il caso (ma non solo) volle che il ponte da cui i ragazzi ammiravano quella meraviglia sprofondasse e i giovani precipitassero nel vuoto: sette di loro trovarono la morte, altri ne uscirono con contusioni e fratture. In una circostanza conviviale d’alto livello in cui si discute di edilizia, di calcoli, di tariffe, di cemento armato, un giovane un po’ sfrontato ricorda al professor Antenore Delada il «mancamento del ponte» di cui è stato responsabile. Ma viene subito messo a tacere dal prestigioso docente del Politecnico: «Giovanotto, lasciate il calcestruzzo a chi ci ha dedicato la vita». Sembra un talk show televisivo dei giorni scorsi. C’è il professorone tronfio, in quella risposta risentita, e c’è anche l’esperto che rivendica la propria sacrosanta competenza come ne abbiamo visti tanti, di recente, in televisione.
Ma è sempre l’ingegnere-scrittore Gadda a segnalare, in un intervento del 1955 sulla rivista «Civiltà delle macchine», come – nella città che si dilata e si estende – gli urbanisti, i sociologi, gli amministratori comunali, gli impresari edili, i cultori di statistica, i tecnici d’ogni genere parlassero con entusiasmo di sviluppo disegnando «grafici in ascesa». E in quella effervescenza, di cui moderatamente si compiaceva, lo scrittore non mancava di avvertire a suo modo che: «Il concetto di limite economico, limite delle possibilità di edificazione e di manutenzione, non sembra essere tra i più connaturati e ingredienti nello slancio vitale dei nostri». I nostri italiani, ovviamente.