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 2018  agosto 27 Lunedì calendario

Intervista a Marco Bizzarri, presidente di Gucci

Amici e nemici dicono che è simpatico, geniale e non guarda nessuno dall’alto in basso. Questa è la cosa più difficile perché Marco Bizzarri, presidente e amministratore delegato di Gucci da quasi quattro anni, vanta due metri d’altezza. Nato 56 anni fa a Rubiera, in provincia di Reggio Emilia, vive ancora lì con la famiglia quando non è in giro per il mondo a guidare un colosso con 13mila dipendenti. Molti lavorano nei negozi sparsi in tutto il mondo, mentre la produzione è rigorosamente «made in Italy», con il più alto tasso di sperimentazione e artigianalità. François Henri Pinault, proprietario del Gruppo Kering, lo scorso aprile è rimasto senza parole all’inaugurazione di ArtLab, la nuova azienda del brand che alle porte di Firenze produce solo i prototipi progettati da quel piccolo genio di Alessandro Michele. Con lui Bizzarri ha ottenuto risultati impressionanti e prevede di raggiungere in un prossimo futuro l’astronomico giro d’affari di 10 miliardi di euro. Super sportivo (è cintura nera di karatè, ha giocato a calcio e si sta preparando alla mezza maratona di New York) il manager ha studiato con lo chef Massimo Bottura e la professoressa di matematica e ragioneria li richiamava dicendo: «Bizzarri, Bottura, voi due non combinerete niente nella vita». 
Come si chiamava la lungimirante professoressa?
«Non ricordo. Mia mamma la chiamava la pitina che in dialetto sta per una gallina piccola piccola. In famiglia l’abbiamo sempre chiamata così. Durante un colloquio si era molto lamentata con lei: suo figlio è sempre a chiacchierare con Bottura. A scuola va bene, ma deve stare più calmo. Mia madre era molto fiera di me perché ero bravissimo. Così le ha risposto: ma signora professoressa se non chiacchierano a 16 anni quando devono chiacchierare?. Mi ha sempre difeso».
In che materie era più dotato?
«In matematica ero imbattibile, però avevo tutti voti molto alti, da sempre». 
E allora perché ragioneria?
«Perché i miei genitori pensavano che con un diploma avrei potuto andare subito a lavorare e poi mia madre sognava un posto fisso per me, possibilmente in banca». 
E Bottura? 
«Massimo studiava meno. Era sicuramente molto intelligente, aveva talento da vendere ed era bravo, soprattutto nelle lingue, però non si è mai sacrificato troppo sui libri». 
Eravate davvero turbolenti? 
«Facevamo molto casino. Eravamo sempre insieme all’ultimo banco, sempre disattenti, sempre a ridere. Per cui la prof non aveva tutti i torti a lamentarsi».
Tutto ciò dove avviene?
«A Modena, dove poi mi sono anche laureato in economia. Ho conosciuto Massimo a ragioneria. Sua mamma ci invitava a pranzo dopo la scuola: faceva la sfoglia per i cappelletti migliore del mondo».
Massimo cucinava già?
«Macché. In realtà, quando ho letto sui giornali che voleva aprire il Campazzo di Nonantola mi ha totalmente spiazzato: non era capace di fare neanche un piatto di spaghetti. Però aveva trovato una signora che faceva molto bene da mangiare e dopo si è appassionato anche lui. Massimo ha sempre avuto un carisma pazzesco: qualunque cosa fa, la fa bene. Ecco perché adesso è Bottura. I piatti che ha inventato lui non se li è sognati nessuno. È facile dire vai, lo posso fare anch’io, intanto però l’ha fatto lui per primo. Insomma il suo segreto è avere tutta questa personalità. Non credo sia possibile diventare il primo ristorante del mondo solo perché fai da mangiare in modo divino. Ci vogliono voglia e capacità di essere sempre innovativi. Lui ha anche riqualificato il ruolo dello chef, dandosi tantissimo da fare nel sociale con l’iniziativa Food for Soul e con i Refettori. Fantastico». 
Torniamo a lei. Ha fatto l’università grazie alle borse di studio? 
«Una l’ho vinta, ma alle medie. All’università sono andato come tutti gli altri, mi sono solo laureato in fretta perché ero un onere sul bilancio familiare. Le tasse non erano alte, ma poi c’erano i libri e gli spostamenti quotidiani: costava tanto anche solo raggiungere Modena. Da Rubiera sono solo 10 chilometri ma era comunque una spesa. Ci andavo in treno, oppure con una vecchia Fiat 126... mi ci vede lì dentro? Dovevo praticamente mettermi sul sedile posteriore per non avere il volante in bocca». 
Da chi ha preso questa altezza da pivot?
«In famiglia nessuno è troppo alto, né mamma, né papà e nessuno dei quattro nonni. Però ai primi del ’900 pare ci sia stato un Bizzarri che era il ferroviere più alto d’Italia. Purtroppo non ho prove, ma penso sia vero». 
Fa sport per mantenersi magro?
«Veramente adesso sono 103 chili, li nascondo nei centimetri di altezza e questo è di sicuro un vantaggio. Da ragazzo ero 82, 83 chili: su due metri vuol dire proprio essere un fuscellino. Giocavo tanto a calcio, per più di 20 anni».
Mai pensato al basket?
«No. Mi chiamavano, ma a me piaceva il calcio e poi non c’era squadra di basket nel paese, per cui sarei dovuto andare a Reggio Emilia o a Modena e proprio non ci pensavo: adoravo correr dietro una palla e poi prenderla a calci. Mi aveva addirittura selezionato l’Inter, quando avevo tredici anni. Ho rifiutato perché volevo studiare». 
A che squadra tiene? 
«Juventino sfegatato. Non vedo l’ora di vedere Cristiano Ronaldo in campo: mi piace vincere».
È sposato con...? 
«Con la stessa donna da 28 anni. Si chiama Maristella, ci siamo conosciuti all’università. Lei era la migliore del corso. La più brava di tutti a dire il vero». 
Non sarà che sposandola ha tolto una rivale dal mercato? 
«Ha cominciato lei con la moda lavorando in Max Mara e passando un anno in Kentucky a studiare la filiera tessile per il comune di Carpi. È sempre stata bravissima. Io nel settore sono capitato per caso».
Ovvero?
«Ho cominciato a lavorare in Andersen Consulting, la multinazionale della consulenza che adesso si chiama Accenture. Solo in un secondo tempo sono approdato alla moda con Mandarina Duck, Marithée e François Girbaud, Stella McCartney, Bottega Veneta e poi Gucci».
E sua moglie a casa? 
«Lei a casa non c’è mai stata. Ha smesso di lavorare nella moda quando abbiamo deciso di avere dei figli: non potevamo essere entrambi sempre in giro. Così abbiamo fatto tutti e due l’esame di abilitazione all’insegnamento. L’abbiamo passato entrambi e da allora lei insegna. Attualmente ha la cattedra di economia turistica alle scuole superiori di Sassuolo». 
Come mai a Sassuolo? 
«Perché è vicino a Rubiera dove continuo ad abitare sempre nella stessa casa. Ho organizzato la mia vita in un modo molto schematico: dal lunedì al venerdì lavoro dove devo, sabato e domenica sono a casa. Io e mia moglie abbiamo scelto di evitare di spostare i figli perché volevamo dar loro delle radici. Loro pensano di aver perso dei vantaggi e dicono che se li avessi portati con me parlerebbero due o tre lingue senza dover faticare sui libri. Può essere, ma le radici sono importanti e poi il sistema scolastico della zona è ottimo, vivono in un paese abbastanza sicuro e hanno una rete di amicizie su cui potranno contare per tutta la vita. Come me e Massimo». 
Sa di essere il ceo che tutti gli stilisti vorrebbero?
«Beh questo non lo so, comunque se è così è perché sono rimasto molto me stesso. Non sono cambiato come persona e questo alla fine piace. Credo inoltre che apprezzino il mio totale rispetto per le competenze, soprattutto quelle molto diverse dalle mie. Per esempio, sono convinto che un altro potrebbe anche fare il mio lavoro, ma quello di Alessandro Michele lo può fare solo lui». 
Un anno fa ha assunto circa 4mila persone per i negozi; 190 le ha prese ora per ArtLab: come si guida un esercito di 13mila dipendenti? 
«Quando ero da Stella McCartney avevo come capo Robert Polet (l’uomo che nel 2004 ha sostituito Domenico De Sole alla guida del Gruppo GucciM; ndr) con cui mi vedevo poco ma parlavo spesso in conference call. Dopo ogni chiamata rendevo al 160 per cento: mi trasmetteva entusiasmo ed energia. Ho imparato molto da questa cosa. Per ottenere buoni risultati bisogna entusiasmare i dipendenti, non massacrarli sottolineando solo i loro errori. Questi ultimi non devono passare sotto silenzio, anzi: se ne parla per migliorare, per crescere tutti insieme. È basilare perché alla fine il lavoro non viene fatto da me, ma da loro. Io devo fare in modo che la squadra vada nella direzione giusta con il massimo delle energie. E non lo fai bastonandoli, non lo fai minacciandoli, lo fai credendo profondamente nella gente con cui lavori». 
Giusto, ma non lo pensano in tanti. Anzi....
«Secondo me il modo migliore per far contenti i dipendenti è far andar bene l’azienda, così ho tutti i soldi possibili e immaginabili per pagarli molto bene. Negli ultimi due anni qui han tutti preso dei bonus mai visti prima. Perché è giusto così. Tanto più cresciamo tanto più riusciamo ad assumere e tanto più riesco a pagare meglio le persone. Il segreto del successo è tutto qui: crescere, essere molto solidi finanziariamente, attirare e tenere i migliori talenti. Insomma ai 10 miliardi di fatturato ci si arriva grazie alle persone. Un aumento di stipendio del 10, 15 per cento per il singolo dipendente è tanto: gli cambia la vita in meglio. Invece per l’azienda è niente perché il nostro è un settore ad altissimo valore aggiunto, ma le persone poi mi rimangono, non vanno via. In azienda ci sono 13mila persone felici».
Infatti Gucci sta diventando come una setta, lo sapeva?
«So che è nato un nuovo vocabolario con neologismi tipo Guccification. I ragazzi in tutto il mondo dicono I feel Gucci per dire Sto bene. Nel loro gergo ormai Gucci è good e questo è bellissimo». 
Lei è molto quadrato, come reagisce quando Alessandro Michele tira fuori cose come le teste mozzate in passerella?
«Gli dico che è completamente matto, ma lo ascolto: sulla visione estetica ha sempre ragione lui. La sua lucida follia è ciò che mi ha conquistato fin dall’inizio. Se non fosse stato matto non avremmo mai fatto una collezione in 5 giorni. Mentre glielo proponevo pensavo se mi dice di sì lo assumo subito perché ci vuole un pazzo per fare una cosa del genere. Se lui avesse sbagliato quella sfilata saremmo saltati in due. Eppure l’ha fatto con grande leggerezza, che è una delle tante cose che mi piacciono di lui. Ale è maniacale nel suo lavoro, lo ama follemente e non lascia perdere niente. Ma affronta sempre tutto con grande distanza: prende sul serio le cose che contano, non quelle che fanno solo perdere tempo».
Le persone che lavorano con lui sembrano sotto incantesimo. Secondo lei perché?
«Vederlo lavorare è veramente uno spettacolo perché vive in un mondo tutto suo. All’inizio non riesci a capire quale sia il filo logico e poi quando mette insieme le sue idee alla fine capisci che in testa ha un percorso molto chiaro e definito. Insomma, ti sembra di veder girare le rotelle della creatività. Non è poco, mi creda».
Siete il secondo marchio al mondo dopo Vuitton vero?
«Sì. Quando si è saputo Chanel che non ha mai rivelato i suoi bilanci ha dichiarato un giro d’affari di 8,3 miliardi l’anno. Peccato che a ben guardare ne fanno 4 solo con i cosmetici, che noi per ora non abbiamo».
Il 24 settembre sfilate a Parigi, non teme che sia il colpo di grazia per Milano?
«No, lo faremo una sola volta perché questo per noi è stato l’anno della Francia, dopo la campagna pubblicitaria dedicata al maggio francese e la sfilata della pre collezione ad Arles. Noi siamo italiani. Italiani da esportazione, ma con la voglia e la capacità di tornare sempre a casa».