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 2018  agosto 27 Lunedì calendario

I diamanti sintetici alla portata di tutti

Per i puristi suona come una bestemmia: tra pochi giorni, ai primi di settembre, il colosso internazionale De Beers, che possiede e gestisce le più grandi miniere di pietre preziose del mondo, lancerà una linea di diamanti sintetici fabbricati in laboratorio. È un po’ come se Gucci o la Ferrari decidessero di vendere negli shop di marca le imitazioni dei loro prodotti: all’apparenza un controsenso, in realtà il segno di una svolta tecnologica e commerciale con ripercussioni che finiranno per arrivare anche alla piccola gioielleria di quartiere. 
Va detto subito che rigorosamente parlando i diamanti sintetici imitazioni non sono: dal punto di vista chimico sono esattamente come quelli «veri», e cioè carbonio cristallizzato. L’unica differenza è l’origine. I diamanti naturali sono frutto di mutazioni chimico-fisiche dovute a calore e pressione, avvenute nelle profondità terrestri e durate in media tra 1 e 1,6 miliardi di anni. Per le pietre sintetiche bastano la tecnologia giusta e qualche settimana di lavoro. La caratteristica si riflette sul prezzo: le pietre ottenute in laboratorio costano circa 800 dollari al carato (l’unità di misura dei preziosi equivale a 0,2 grammi), più o meno un decimo delle pietre naturali di buona qualità. A complicare le cose è il fatto che gioielli sintetici e naturali sono indistinguibili anche all’occhio più allenato. «L’unica maniera per riconoscerli è vedere come reagiscono a specifiche radiazioni luminose» spiega Loredana Prosperi, responsabile del laboratorio dell’Istituto Gemmologico italiano. In pratica ci vogliono dei tecnici e delle macchine.
«MADE IN CHINA»
La rivoluzione dei diamanti «artificiali», sancita in questi giorni dal colosso De Beers, è iniziata in realtà qualche decennio fa. La prima pietra ottenuta a tavolino è del 1954 (per i rubini si torna addirittura alla seconda metà dell’Ottocento) e da allora i diamanti sintetici sono stati utilizzati nell’industria. Come è noto il diamante è il materiale più duro in natura e viene utilizzato tra l’altro nel settori degli abrasivi o della trivellazione. A questi scopi già in passato il materiale ottenuto sinteticamente, pur costoso e dall’aspetto non invitante come quello delle pietre per gioielleria, era più che adeguato. Anche in questo campo però la tecnologia ha fatto passi da gigante: i costi sono diminuiti, la qualità è aumentata. Almeno un paio di tecniche hanno finito per affermarsi: nella prima si infilano idrogeno e metano in una specie di forno a microonde sottoposto ad alta pressione e sul cui fondo sono stati sistemati dei «semi» diamantiferi (delle piccole pietruzze), attorno a cui il carbonio finisce per cristallizzarsi. Un altro procedimento si chiama Cvd (chemical vapor deposition) ed è basato sul lento depositarsi di strati gassosi introdotti in un ambiente sotto vuoto. 
Così, soprattutto dalla Cina e verso la città indiana di Surat dove viene tagliato il 90% dei diamanti mondiali (soprattutto quelli di piccole dimensioni) è iniziata l’invasione di prodotti ottenuti in laboratorio, che un po’ alla volta hanno iniziato a farsi spazio anche sulle altre grandi Borse internazionali, come Anversa, Tel Aviv e New York. 
Ora è arrivata la reazione della De Beers. Il nome è sinonimo di diamanti: fondata nel 1880 in Sud Africa da Cecil Rhodes, il creatore della Rhodesia, la società era, fino all’inizio degli anni Duemila, un vero monopolio globale con una quota di mercato che superava il 90%. Chi voleva comprare un diamante doveva obbligatoriamente partecipare a una delle sue aste. E il controllo quasi totale delle miniere consentiva alla società di aumentare o diminuire l’offerta di pietre a seconda delle richieste, in modo da tenere alti i prezzi. L’atteggiamento, contrario ad ogni tipo di normativa antitrust, aveva portato De Beers a entrare in rotta di collisione con gli Stati Uniti, dove per lunghi periodi i manager del gruppo non hanno potuto entrare pena l’arresto.
NUOVI CONSUMATORI 
Tra il 2000 e il 2004 la società ha liquidato le scorte di pietre che consentivano di «gestire» le quotazioni, ma ancora oggi controlla una bella fetta del mercato mondiale: una pietra su tre venduta nel mondo è sua. La decisione, presa in maggio, di lanciare la linea Lightbox Jewelry, che sarà distribuita via internet e poi in un secondo tempo nei negozi, è considerata dagli analisti una abile mossa commerciale. Nel mirino, con una linea di gioielli a prezzo contenuto, c’è un pubblico aggiuntivo, con disponibilità economiche che non consentono l’acquisto di diamanti naturali. In più la forza del marchio e la fissazione di un prezzo molto al di sotto di quello delle pietre tradizionali consentono di tagliare il terreno sotto i piedi a molti produttori «sintetici», che fino ad ora hanno potuto approfittare del traino di prezzo dei diamanti tradizionali. Un’ulteriore attrattiva è quella ecologico-umanitaria: le pietre da laboratorio sono per definizione escluse dalle accuse legate alle miniere situate in Paesi vittima di governi dittatoriali e sanguinarie guerre civile (è ormai entrata in uso l’espressione «blood diamonds»). 
A produrre le pietre sintetiche sarà per il momento uno stabilimento che De Beers ha creato qualche anno fa in Inghilterra, a una quindicina di chilometri da Oxford e che veniva fino a ora utilizzato per la produzione di diamanti ad uso industriale. In costruzione c’è poi un altro stabilimento in Oregon, negli Stati Uniti. Insieme i due impianti dovrebbero produrre, secondo i programmi, la bella cifra di 500mila carati l’anno. 
FUORI I DOCUMENTI 
L’ingresso in grande stile di prodotti sintetici e il fatto che sono praticamente indistinguibili da quelli naturali pone però nuovi problemi a chi i diamanti li vende e li compra senza avere la possibilità di consultare ogni volta un laboratorio chimico dove farli analizzare. «Il tema esiste», spiega Steven Tranquilli, il direttore di Federpreziosi, l’associazione dei gioiellieri che aderiscono a Confcommercio. «Abbiamo subito organizzato un ciclo di incontri in tutta Italia con i nostri associati. Volevamo fare chiarezza su quello che sta succedendo. Si ricorda quando si parlava di argento bilaminato? In realtà di argento c’era solo, appunto, una lamina, mentre sotto c’erano semplicemente resine. Ecco, già essere chiari sui termini è importante: un diamante è sempre naturale, il sintetico è qualche cosa di diverso». 
A porre l’accento sulla necessità di un intervento normativo è Loredana Preziosi dell’Istituto Gemmologico: «Produttori e gioiellieri sono già oggi molto attenti a evitare equivoci o commistioni improprie. Ma l’esigenza di una certificazione, di un’adeguata documentazione di ogni singola pietra andrebbe stabilita per legge».