Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2018
La Consulta sempre meno chiamata in causa
Non è certo (solo) da questi numeri che si pesa la centralità di una Corte suprema in un ordinamento giuridico. Quanto piuttosto dalla capacità di interpretare quella funzione di tutela della “giustizia della legislazione”, nel cui esercizio sono continuamente messe in gioco le qualità della vita, della convivenza di tutti, come sottolineava pochi mesi fa l’allora presidente della Consulta Paolo Grossi.
Certo però almeno sul piano quantitativo sono abbastanza impressionanti i dati che testimoniano il calo progressivo e, pare, inarrestabile, dei casi in cui la Corte costituzionale viene chiamata in causa.
Il crollo del contenzioso
In 10 anni, infatti, gli atti di promovimento sono crollati dai 950 del 2007 ai 308 dell’anno scorso. Con una, a sua volta, pesante riduzione del numero delle ordinanze di rimessione, passate dalle 857 del 2007 alle 190 dell’anno scorso. A diminuire sono di conseguenza anche le decisioni, che sono state 281, un dato inferiore a quello del 2016, -3,7%, confermando la tendenza, a partire dal 2014, che non vede superare i 300 provvedimenti.
Con una profondità di visione più accentuata, poi, stando ai dati della Corte, se si scompone il ventennio passato in periodi di 5 anni, si osserva che il valore medio delle decisioni è stato di 490 tra il 1997 e il 2001, 462 tra il 2002 e il 2006, 395 tra il 2007 e il 2011, e 299 tra il 2012 e il 2016.
Il conflitto Stato-Regioni
Un calo che sembra non investire il versante del conflitto tra Stato e Regioni. Per quanto, infatti, i ricorsi in materia di Titolo V dimostrino dal 2002 a oggi un andamento altalenante – con un picco negli anni dal 2010 al 2012 (in quest’ultimo anno si è raggiunta la cifra record di 193 cause) – il contenzioso sulle competenze non accenna a diminuire. La situazione registrata nel 2016 con 77 ricorsi – il minimo storico dopo i 50 fascicoli arrivati alla Corte nel 2007 – e che faceva pensare a un’inversione di tendenza del cospicuo braccio di ferro tra Roma e la periferia (anche sull’onda della riforma costituzionale, poi bocciata dal referendum di dicembre 2016), in realtà si è dimostrato solo un dato contingente. L’anno scorso, infatti, i ricorsi sul Titolo V sono tornati a crescere, raggiungendo la cifra di 95. Insomma, il minor lavoro di cui viene investita la Consulta non sembra, al momento, addebitabile al conflitto sulle competenze.
Anche le decisioni confortano questo dato. Il lavoro della Consulta per comporre i dissidi tra il Governo e le Regioni continua, infatti, a mantenersi elevato: l’anno scorso sono state prodotte 106 tra sentenze e ordinanze, quante quelle dell’anno precedente e in linea con 2014, quando furono 96. Certo, c’è stato un momento – anche in questo caso tra il 2010 e il 2013, in cui le performance della Corte erano ancora più alte, con oltre 140 decisioni l’anno – ma l’attività ha conosciuto pure fasi di minor intensità: tra tutte – tralasciando le 13 e le 52 sentenze del 2002 e 2003, anni a ridosso del debutto del nuovo Titolo V della Costituzione, avvenuto nel 2001 – il 2007, con 72 decisioni.
In oltre sedici anni – considerando anche i primi sette mesi e mezzo di quest’anno – dalla Consulta sono uscite, sempre in tema di conflitto Stato-Regioni, 2.110 sentenze a fronte di 1.746 ricorsi (il numero dei verdetti è più alto perché a una causa possono corrispondere anche più decisioni).
I giudici si sono dimostrati “equanimi”, dando ragione in misura quasi uguale al Governo e alle amministrazioni regionali: dal momento della riforma del Titolo V sono state, infatti, 560 le sentenze di illegittimità costituzionale pronunciate a fronte di ricorsi presentati da Roma, contro le 554 originate da cause promosse dalla periferia.
La Regione più conflittuale è la Toscana, con 86 ricorsi presentati a oggi, seguita dalla provincia autonoma di Trento, con 69 cause.