La Stampa, 27 agosto 2018
La realtà virtuale aiuta i detenuti a evadere (restando in prigione)
Cos’è che fa sentire l’esistenza monca, a un detenuto? Il fatto di non poter archiviare nuovi ricordi. E in questo solco profondo della memoria lasciata in stand by, vuole aprire una strada tecnologicamente avanzata il docu-film Vr Free (We are free), progetto nato a Torino, il primo in Italia che su un tema sociale, quello della reclusione e degli istituti penali, userà la tecnica di ripresa a 360 gradi. Che significa un’immagine circolare, panoramica e dunque la produzione di realtà virtuale aumentata, definita da alcuni ricercatori sulle interazioni umane dell’Università di Stanford, in California, come una tecnica per elevare i livelli di empatia e influenzare i comportamenti positivi.
Ecco a cosa hanno pensato e a cosa stanno puntando Valentina Noya, produttore torinese, e il regista iraniano Milad Tangshir, documentarista sociale: aprire la porta del carcere al mondo dei liberi e far uscire dalle celle i detenuti: con la potenza della cinematografia virtuale. Realizzata attraverso il progetto che, scritto a due mani, ha vinto il bando «Under35 Digital Video Contest» promosso da Film Commission Piemonte, ottenuto la co-produzione dell’Associazione Museo nazionale del Cinema e un contributo di 15 mila euro: inizio riprese domenica 2 settembre al parco del Valentino.
Sì, in un pomeriggio di fine estate sul Po, una festa con tanto di musica e pic-nic e l’invito a tutte le comparse di trovarsi davanti al locale Fluido. «Cerchiamo comparse ma non nel senso stretto del termine – dice Valentina Noya – Chiediamo di partecipare come se stessi, ballando, chiacchierando con gli amici, suonando. Lo stare insieme sarà la prima parte che porteremo ai detenuti dentro al carcere delle Vallette». Un ricordo nuovo per detenuti con lunga pena e definitiva. E sarà ripreso il loro coinvolgimento, insieme alla struttura penitenziaria, agli spazi esigui, ai momenti delle attività.
«L’idea che si ha del carcere è per lo più un cliché cinematografico – prosegue la Noya, anche direttrice del festival «LiberAzione», una tre giorni di mostre, spettacoli e laboratori sulla detenzione – Così possiamo restituire un’immagine reale, complessa perché la tecnica 360° è immersiva rispetto allo spettatore. Cercheremo inoltre di coinvolgere alcuni familiari dei detenuti per le riprese esterne e in casa loro, mentre almeno un paio di condannati saranno i protagonisti del documentario».
Generando una circolarità di emozioni e di memoria fino alla sovrapposizione delle quotidianità mancate: «L’immaginario virtuale permetterà per qualche momento lo scambio di luoghi e di ruoli». Con la matrice del videogioco che, dopo febbraio 2019, data della conclusione del complesso montaggio del film, potrà essere visto sul web, ma non solo. Il progetto è stato infatti costruito per avere una vita anche da performance artistica, sviluppata a tappe dentro cabine che gli autori vorrebbero far comparire nei musei, nelle stazioni ferroviarie, nelle gallerie d’arte e nei luoghi dove la detenzione non rilascia permessi.