La Stampa, 27 agosto 2018
Salisburgo, Europa
Una capatina al Festival di Salisburgo può rivelarsi un eccellente antidoto al populismo montante e ormai tracimante anche nella sfera artistica (oltre a permettere di osservare l’esotico comportamento della kasta europea che insiste a usare i congiuntivi e a non mettersi le dita nel naso).Il Festival, opulento e mondano quanto si vuole, resta però fedele alle linee dei padri rifondatori, in primis la trinità Hofmannsthal-Strauss-Reinhardt. Rimane cosmopolita, aperto, curioso, europeo. E, benché istituzione, anzi il più «istituzionale» e classico dei festival, continua a rischiare: nella scelta del repertorio, pieno di riscoperte e perfino di eccentricità, e nel modo di proporlo, con letture sceniche e musicali non scontate. Non è un caso, per dire, che i concerti più richiesti ed esauriti fossero quelli di Teodor Currentzis, il direttore che per molti è un genio, per altri un bluff, ma è tutto men che «classico» e rassicurante.
Certo, non tutte le ciambelle riescono con il buco. Per esempio, non è stata una buona idea affidare la nuova Incoronazione di Poppea al coreografo Jan Lauwers, che ne ha fatto un gran pasticcio concentrandosi sui misteriosi movimenti dei suoi ballerini e lasciando i cantanti a loro stessi. Impossibile capire perché per tutto il Monteverdi, tre ore e mezzo di spettacolo, su un podio in mezzo alla scena ci sia uno dei ballerini che, a turno, piroetta su se stesso. Girogirotondo, solo che non casca il mondo ma qualcos’altro, almeno allo spettatore.
Fantasia e senso del teatro
Peccato perché la direzione di William Christie con le sue Arts Florissants è un prodigio di fantasia e senso del teatro e la compagnia nel complesso buona, dominata da Sonya Yoncheva, Poppea sfrontatamente sexy. Invece Nerone (Kate Lindsey) è insufficiente, mentre Stéphanie D’Oustrac, Ottavia altera e chic, sembra una delle duchesse di Downton Abbey che trova il marito a letto con la sguattera. Da segnalare due giovani barocchisti italiani di valore, Carlo Vistoli e Renato Dolcini, rispettivamente Ottone e Seneca.Invece la regia di Krzysztof Warlikowski per le meravigliose Bassarids di Henze, uno dei capolavori ottimi massimi del Dopoguerra, è uno spettacolo ambizioso, complicato e anche un po’ incasinato, ma pieno di trovate illuminanti e tecnicamente strepitoso nello sfruttare al meglio lo spazio impossibile della Felsenreitschule. Sul podio, Kent Nagano fa Nagano: oggettivo, freddo, preciso, un po’ tipo chirurgo impegnato a sezionare la complessissima scrittura di Henze fino a renderla intelleggibile.
Poi, si diceva, l’apertura mentale del Festival è tale da sfidare anche i tabù del politicamente corretto. Così, secondo i soliti monelli Moshe Leiser e Patrice Caurier, l’Algeri dell’Italiana di Rossini è quella attuale, una metropoli mediorientale sgarrupata piena di case non finire con le parabole sul balcone dove Mustafà diventa una specie di volgarissimo boss impegnato in affari loschi. E poi cammelli, yacht e gag a ripetizione: è una specie di commedia all’italiana un po’ scorreggiona (oltretutto Alessandro Corbelli, al solito bravissimo come Taddeo, è uguale a Gianfranco D’Angelo) di quelli di cui è bon ton dire male: in realtà si ride, e molto.
La produzione esiste perché c’è Cecilia Bartoli. Certo, la parte di Isabella è troppo bassa per lei, che la risolve facendo continuamente variazioni acute, e nel primo atto gioca un po’ di rimessa, salvo scatenarsi nel secondo. Però la virtuosa è sempre impeccabile e l’interprete geniale: mai sentiti cosparsi di tanto pepe i doppi sensi malandrini del libretto. Benissimo anche Ildar Abdrazakov come Mustafà (una gran voce di quelle «di una volta»). Quanto all’idea di far Rossini sugli strumenti originali, è condivisibile: il problema è che l’Ensemble Matheus non riesce a garantire una lettura corretta, fra stecche, spernacchiamenti e altre amenità pochissimo rossiniane.
Ultima notazione: il nuovo governo austriaco di destra (molto di destra) non interferisce con il Festival, anche perché sarebbe come prendersela con la gallina dalle uova d’oro. Se pensate che i leghisti di Macerata hanno chiesto di censurare uno spettacolo dello Sferisterio e gli «esperti» grillini dettano direttive per i teatri lirici che sembrano partorite dalla povera zia, il paragone con l’attuale provincialissima Italietta populista senza essere pop diventa impietoso.