Corriere della Sera, 27 agosto 2018
I 105 anni di Pahor: «Al mattino pillola e 7 fettine di pane»
Buon compleanno, Pahor, come va? «Sto facendo colazione». Al telefono, le parole dello scrittore triestino arrivano nitide, squillanti. Questa è una giornata speciale per lui che compie 105 anni. «Oh, non ci penso proprio. Le ore e i giorni scorrono come al solito. Ecco, se non fosse per una fastidiosa ernia iatale di cui soffro starei meglio», taglia corto il grande vecchio. E aggiunge: «Ascolti: da quando sono uscito vivo dal campo di concentramento il passare del tempo mi lascia indifferente. Non mi soffermo, guardo avanti. Ogni anno che la Natura mi concede è un privilegio ed io le sono riconoscente. Ammetto che me ne ha regalati molti».
Sono le 10 di domenica mattina (ma lui è sveglio dalle 5 e 30) e pare di vederlo, seduto al tavolo della piccola sala da pranzo davanti alla quotidiana tazza di caffè e latte. Aggiunge dettagli, Boris Pahor, che completano efficacemente la scena immaginata: «Accompagno la mia bevanda calda con pane burro e marmellata. Precisamente, il panino rotondo, che qui chiamiamo rosetta, viene diviso in sette fettine. Prima provvedevo io stesso, ora a tagliarlo pensa Nora, la mia bravissima aiutante (Pahor non usa mai la parola «badante», piuttosto dice «gentile signora», ndr). Spalmo le fettine con il burro buono che arriva dalla Slovenia e sopra ci metto un velo di marmellata».
Fin qui, l’esistenza dello scrittore di nazionalità slovena è stata intensa, drammatica, avventurosa e attiva. La racconta con scioltezza e lo stesso tono di voce – spazientendosi talvolta se l’interlocutore non gli sta dietro come vorrebbe – sia citando le piccole abitudini quotidiane, sia indugiando sulle gravose esperienze che lo hanno segnato nel profondo.
Narra il suo piccolo mondo chiuso nella villetta dove abita, che guarda il mare di Trieste, il pranzo di compleanno che lo aspetta – «Ho poco tempo, mi devo vestire» – ma poi ritorna sul libro-verità che lo ha reso famoso, Necropoli, il cui iter di pubblicazione fu esso stesso un’avventura. Confida il segreto della sua memoria: «Ogni mattina, appena mi sveglio, assumo una compressa a base di ginkgo biloba. Aiuta a tenere sveglio il cervello. Me la consigliò un amico, tanti anni fa, nel 1990 a Parigi. Non l’acquisto personalmente, mi mandano le confezioni dalla Francia. Costano pochi euro». Funziona. Quasi un elisir di lunghissima vita.
Boris Pahor, nato nel 1913 nella Trieste asburgica, è stato testimone diretto delle discriminazioni verso la sua minoranza, quella slovena, e della deportazione nazista, durante la seconda Guerra Mondiale. «Scrivere e parlare di cose brutte del passato aiuta a scaricarle, oltre che a non dimenticare», dice. La prima cosa brutta che ha visto si perde nell’infanzia: l’incendio del Narodni Dom, la casa della cultura slovena, ad opera dei fascisti. Lui aveva sette anni e non l’ha dimenticata.
Ma adesso, nel giorno del suo 105esimo compleanno, gli piace sottolineare come Necropoli, l’opera oggi considerata un capolavoro, scritta nel lontano 1967 per fissare il dramma dei suoi giorni nei lager, fu tradotta in italiano (Pahor, per scelta identitaria, scrive in lingua slovena) e pubblicata nel nostro Paese la prima volta nel 1997, dal Consorzio Culturale del Monfalcone. Diffusione inesistente. «In Francia, ben prima mi riconobbero come scrittore; il mio libro fu pubblicato nel 1990 – ricorda —. Agli editori italiani, invece, sembrava non interessare. Neppure lo leggevano».
In breve, Necropoli andò nelle librerie soltanto nel 2008, grazie alla casa editrice romana Fazi. Per merito del giornalista Alessandro Mezzena Lona, responsabile delle pagine culturali del Piccolo, che trovò il canale giusto. Poi si moltiplicarono le traduzioni e le edizioni in vari Paesi stranieri. E Pahor fu candidato al Nobel.
Avevamo lasciato il grande vecchio in mattinata. Lo risentiamo dopo il pranzo di compleanno organizzato a Sezana, piccolo centro sloveno di confine, presso la trattoria Pri Dragici. Com’è andata? «C’erano i figli, i nipoti e l’amica Cristina Batocletti, curatrice della mia autobiografia. Vuole la verità? Il menu non faceva per me. Hanno rimediato portandomi crostini in brodo e carne trita. La torta di crema l’ho mangiata, mi piace molto».
Brindisi? «Sì, ma nel mio bicchiere c’era acqua fresca. Non bevo vino».