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Giuseppe Sarcina per il Corriere della Sera «L’America è in lacrime», ha detto per tutti il senatore Lindsay Graham in morte di uno dei suoi migliori amici e di uno degli uomini più in vista del Paese. John McCain se n’è andato alla sua maniera, sabato 25 agosto alle ore 16,28. Venerdì scorso aveva chiesto lui stesso ai medici di interrompere le cure, ormai inutili, contro il tumore al cervello. Mercoledì 29 avrebbe compiuto 82 anni. Il commento più formale, un tweet quasi di routine, è quello di Donald Trump, pubblicato alle 20,46 di sabato: «La mia più profonda partecipazione e rispetto per la famiglia del senatore John McCain. I nostri cuori e le nostre preghiere sono con voi». Qualche mese fa, quando ormai aveva capito che non ce l’avrebbe fatta, McCain aveva dichiarato pubblicamente: «Non voglio Trump al mio funerale». Lo vedremo presto: la cerimonia solenne si terrà nella Cattedrale di Washington nei prossimi giorni. Ieri sono arrivati messaggi di cordoglio dai leader di tutto il mondo: Angela Merkel, Emmanuel Macron, Benjamin Netanyahu, tra gli altri. Intanto è già cominciata la battaglia per occupare il suo seggio al Senato, ma non sarà facile colmare il vuoto politico. A Capitol Hill c’era un modo semplice per capire dove fosse John McCain: nel mezzo del capannello più fitto dei cronisti. Non si sottraeva. Non lo ha mai fatto da parlamentare, da candidato alle presidenziali e, prima ancora, da pilota della Marina. «Mi sono sentito l’uomo più felice della terra», ha scritto nella sua autobiografia, uscita nel maggio scorso: «The Restless wave», l’onda incessante. Il libro è stato lo strumento per lasciare in ordine i conti politici e personali con se stesso e poi, certamente, con l’America di oggi. E anche con Donald Trump, naturalmente. Tra i due c’era un’avversione quasi genetica. Venne alla luce il 20 luglio 2015, quando in un comizio, l’allora candidato alla nomination repubblicana disse davanti alla folla: «John McCain non è un eroe di guerra. Si può chiamare eroe qualcuno che si è fatto catturare? A me piacciono gli altri, quelli che non si fecero prendere». Solo i più sciagurati applaudirono. E per qualche giorno sembrava che la scalata di Trump dovesse fermarsi lì. Non fu così, ma da quel momento «John» diventò il punto di riferimento della fronda interna ai repubblicani. Ha costantemente criticato non solo il presidente, ma anche le scelte del suo partito, in politica estera, come interna. Con poche eccezioni. Fino ad arrivare alla notte drammatica del 28 luglio 2017, quella del pollice verso in diretta televisiva contro la riforma dell’Obamacare. Ha chiuso dubitando che Gina Haspel fosse la persona giusta per guidare la Cia. Motivo? Nell’audizione del 9 maggio scorso, davanti alla Commissione Intelligence, Haspel si era rifiutata di definire «immorale» la tortura. John era nato praticamente con la divisa, il 29 agosto del 1936 a Coco Solo, la base navale degli Stati Uniti nel canale di Panama. Suo padre era un ufficiale di Marina che diventò poi generale a quattro stelle e comandante delle forze armate in Vietnam, negli anni in cui il figlio era in prigionia. A diciott’anni John era già nella United States Naval Academy di Annapolis, nel Maryland. Poi vent’anni di missioni da pilota, sempre più pericolose: tre incidenti, diverse fratture. Niente, però, confronto alla prigionia nell’«Hilton di Hanoi». Dal 1967, quasi cinque anni di torture, pestaggi sistematici, lunghi periodi in cella di isolamento. Oggi l’antico carcere di Hoa Lo è un museo. In una teca è conservata la tuta da pilota di McCain. Nel 1973 torna a casa. Lo aspetta la moglie Carol, da cui aveva avuto due figli e da cui divorzierà nel 1980. Lo stesso anno si risposa con Cindy Lou Hensley, figlia di un imprenditore nel settore della birra, a Phoenix in Arizona. La nuova famiglia si trasferisce nello Stato del Sud. McCain è già una celebrità televisiva e il passaggio in politica è quasi naturale. Tra le fila dei repubblicani. Viene subito eletto deputato a Washington, nel 1982, poi nel 1987 passa al Senato, dove resterà per trent’anni. Per due volte tenta di arrivare alla Casa Bianca. Si presenta alle primarie del 2000, ma viene sconfitto da George W. Bush. Ci riprova nel 2008. Arriva alla finale con Barack Obama: insuperabile quell’anno. Riprende il suo posto tra i banchi del Senato. Passo veloce, ma pronto alla risposta. È capitato di incontrarlo spesso a Capitol Hill. Una volta in ascensore. La sua assistente prova a intervenire. Il senatore con un piccolo gesto la ferma, e poi chiede: «Se ha una domanda la faccia in fretta, non abbiamo molto tempo».
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Gianni Riotta per La Stampa
Il senatore John Sidney McCain, scomparso ieri a 81 anni, non poteva alzare le braccia oltre le spalle, stringeva la mano storcendo goffo il braccio, il suo passo, energico da ex pilota della U.S. Navy aveva una malinconica zoppia.
Erano i ricordi del 26 ottobre 1967, quando, nella missione di bombardamento numero 23 sul Vietnam del Nord, contro una centrale elettrica della capitale Hanoi, venne colpito da un missile sovietico Sam II. McCain aveva già visto la morte da presso il 27 luglio, a bordo della portaerei Forrestal, Golfo del Tonkino, un missile era esploso per errore a bordo, uccidendo 134 marinai e mettendo la maestosa nave fuori combattimento.
McCain s’era salvato per miracolo, da lì era passato all’ufficio stampa della capitale amica Saigon, lavoro di lusso, zero rischi, cene importanti, belle ragazze. Aveva invece chiesto di essere reimbarcato sulla portaerei Oriskany, bagnarola varata nel 1942 ma con la fama di nave dei piloti con il «right stuff», la grinta vera. Nessuno pensava allora che McCain avesse «right stuff». Figlio e nipote di ammiragli, s’era diplomato all’Accademia Navale quintultimo in classifica, 894 su 899. «Mio nonno, mio padre ed io finimmo tutti in coda, io mi laureai per miracolo – scherzò l’anno passato all’Accademia, nel discorso di commiato - mio figlio John, nella parte alta del ranking, ha rotto la tradizione di famiglia».
La carriera da pilota non è migliore, due aerei distrutti, un volo acrobatico sotto i fili elettrici in Spagna che priva migliaia di persone di energia, «facevo il pagliaccio e quasi creai un incidente internazionale» si scusò nell’autobiografia «Faith of my fathers».
Precipitato sul lago
Quando McCain sente il segnale del Sam II in arrivo, deve eseguire la manovra «jinking», attendere il missile, cabrare all’ultimo per scongiurare l’impatto. Decide di scaricare le bombe, ritarda, è colpito. Lanciandosi col seggiolino si ferisce alle gambe e al braccio. Precipita sul lago di Hanoi, perde i sensi tornando a galla, la folla lo bastona e pugnala con una baionetta. Salvato da miliziani vietnamiti, finisce al carcere-lager detto «Hanoi Hilton». I carcerieri apprendono presto che il tenente invalido è figlio dell’ammiraglio che poco dopo dirigerà le forze navali in Vietnam. Lo battezzano «Principino», gli propongono la libertà anticipata. Fedele al codice della Marina, McCain rifiuta. Per rivalsa gli spezzano di nuovo il braccio, lo torturano per quattro giorni finché, «con vergogna», non firma una rozza autocritica, «ogni uomo ha il suo punto di rottura, il mio era quello». Resta sei anni all’Hanoi Hilton, a Natale suo padre si fa trasportare al punto più a Nord del fronte, «per star vicino a John».
L’esperienza di guerra del senatore McCain, per due volte in corsa per la Casa Bianca, sconfitto da G. W. Bush alle primarie 2000 e da Obama alle presidenziali 2008, ne forma il carattere, «ero uno scavezzacollo, la Marina mi trasformò». Sposa, in seconde nozze, un’ereditiera, passa alla politica nel 1983 e viene eletto due volte alla Camera e sei al Senato, in Arizona, tra i repubblicani. Ma «Maverick», scavezzacollo, resta per sempre. Sfida il suo partito sull’emigrazione, con il democratico Kerry, altro reduce del Vietnam, avvia il disgelo con il Vietnam sui dispersi americani. Accusa i complottisti che insinuano «Obama non è nato in America», «una calunnia, rispettate gli avversari», all’Onu propone – purtroppo senza ascolto - l’intesa «tra le nazioni democratiche contro il totalitarismo». Nel 2008 compie due errori strategici, interrompe la campagna nei giorni del crollo di Wall Street e nomina l’inesperta governatrice dell’Alaska Sarah Palin come vicepresidente: il carisma di Obama lo sopraffà alle urne. Del giovane presidente McCain diventa critico, deprecandone – giustamente - il disimpegno in Medio Oriente, il ritiro precoce in Iraq, l’incertezza in Afghanistan, l’inanità davanti alle offensive di Putin in Ucraina e Siria.
Trump detestato
L’ultima prova per «Maverick» arriva con Donald Trump. I due si detestano, «ufficiale-gentiluomo» McCain, duro di New York Trump, eroe McCain, riformato per «speroni ossei» Trump. McCain teme per il partito tradizionale, Trump ricambia «per me gli eroi non si fan prendere prigionieri». Finirà con il voto cruciale di McCain a salvare in Senato la riforma sanitaria di Obama e con il presidente che non nomina neppure il senatore, firmando una legge a lui intestata.
L’anno passato, al forum European House a Cernobbio, McCain venne accolto da un’ovazione dalla sala e si ritirò poi a colloquio col premier Gentiloni: «Amico mio – gli disse abbracciandolo - le auguro in bocca al lupo, si batta perché l’Alleanza atlantica non declini, verranno tempi duri tra America ed Europa». Nell’estremo saluto ai cadetti della Navy, il cadetto n. 894 ammonì: «La tirannia minaccerà sempre la pace, perché contrasta l’umano desiderio di libertà. Le istituzioni liberali son fragili e vanno difese, in patria e nel mondo. L’America deve contribuire a un futuro di pace e prosperità. Quando non l’abbiamo fatto abbiamo fallito, come nel 1918: non sono tempi di isolazionismo, rassegnazione o “America First”. Svegliatevi!». Rip, Maverick.
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Federico Rampini per la Repubblica
«I vecchi soldati non muoiono mai, si dissolvono lentamente all’orizzonte». L’immagine che venne usata dal generale Douglas MacArthur, sarebbe il commiato perfetto per il vecchio soldato John McCain, classe 1936. Salvo che lui non si è proprio "dissolto", il suo profilo di guerriero non è svanito delicatamente nella penombra del crepuscolo finale. Ha combattuto fino all’ultimo, su tutti i fronti: la malattia e la politica. Il secondo, quasi più drammatico del primo.
Di avere ormai il tempo contato, per il tumore al cervello che gli era stato diagnosticato nel luglio 2017, McCain se n’era fatto una ragione. Non si rassegnava, invece, a Donald Trump. Non accettava di vedere in mano a quell’uomo l’America per la quale aveva rischiato la vita, e il Grand Old Party a cui aveva dedicato 36 anni di militanza.
Anche negli ultimi mesi in cui non poteva viaggiare a Washington, dal suo ranch dell’Arizona il senatore ha attaccato duramente il summit di Helsinki fra Trump e Vladimir Putin; ha criticato l’astio del suo presidente verso gli alleati europei della Nato.
McCain è sempre stato un originale, un battitore libero, un disturbatore di equilibri, un "maverick" rispetto all’establishment. Mai però avrebbe pensato che la bandiera dell’anti-establishment finisse in mano a un affarista-showman, usata per infangare le regole della democrazia e la civiltà del dibattito pubblico. Ogni volta che ha potuto, McCain si è messo di traverso a Trump. E spesso le scintille tra i due hanno rievocato la prima parte della vita del senatore dell’Arizona: la guerra.
McCain, a differenza di Trump, è stato un vero patriota. La bandiera, l’inno, per lui non furono simboli esteriori. Veniva da una tradizione gloriosa: da quell’America di tanto tempo fa in cui anche l’élite Wasp, bianca anglosassone protestante, anche la buona borghesia, andava al fronte, rischiava la vita, moriva proprio come i figli dei poveri, come i neri e gli immigrati messicani. Nella famiglia McCain ci sono passati tutti. Il nonno e il padre furono ammiragli e a tutti e due è dedicata un cacciatorpediniere della U.S. Navy, la Uss John S. McCain, in servizio nella Settima Flotta e di base in Giappone. Anche il terzo della stirpe, il futuro senatore repubblicano, fece l’accademia navale e si arruolò nella marina (nel 1958), ma divenne pilota di caccia sulle portaerei. Durante la guerra del Vietnam rischiò di morire una prima volta nel 1967 durante l’incendio della portaerei Forrestal. Lo stesso anno durante una missione aerea il suo caccia venne abbattuto sopra il cielo di Hanoi. Ferito, il pilota McCain fu catturato dai nordvietnamiti, torturato, e rimase loro prigioniero per sei anni. Rifiutò una liberazione veloce perché convinto che lo avrebbero usato a fini di propaganda. Per tutta la vita soffrì di patologie legate a quel periodo di prigionia. E’ a un uomo di quella tempra che Trump fece l’oltraggio più ignobile. Irritato perché il senatore dell’Arizona non gli dava il suo endorsement durante la campagna per la nomination repubblicana, nell’estate del 2016 Trump se ne uscì con quell’insulto: «McCain non è un eroe di guerra. Gli eroi sono quelli che non si fanno catturare». Un anno e mezzo dopo, il momento di regolare i conti venne quando McCain fu intervistato per un documentario sulla guerra del Vietnam. «Un aspetto di quel conflitto che non accetterò mai – disse McCain – è che arruolavamo l’America dai bassi redditi, mentre i ricchi trovavano sempre un dottore che gli diagnosticava un ossicino fuori posto». L’affondo era diretto a Trump che per cinque volte si fece esonerare dal servizio militare negli anni del Vietnam, una delle quali proprio grazie a una minuscola e benigna "escrescenza ossea" ad un piede.
Gli scontri fra i due restano memorabili. Accettando la Liberty Medal, quando ormai lottava già da mesi col tumore al cervello, McCain fece una requisitoria implacabile contro il trumpismo: «Viviamo in un Paese fatto di ideali, non di terra e sangue». Poi una condanna di quel «nazionalismo improvvisato, raffazzonato da gente che cerca dei capri espiatori anziché cercare soluzioni ai problemi». Trump perse le staffe e gli mandò a dire: «Finora sono stato gentile, ma a un certo punto lo aggredirò, e non sarà un bello spettacolo». Secca la replica del veterano: «Si accomodi pure. Ho affrontato avversari di una certa forza in passato».
Per uno come McCain è difficile farsi spaventare da Trump. Gli scontri fra i due sono stati anche di sostanza. Sulla contro-riforma sanitaria, proprio il voto contrario di McCain affondò nell’estate 2017 il tentativo di Trump di cancellare Obamacare. Fedele ai suoi principi, il senatore dell’Arizona disse che mettere le mani nuovamente nel sistema sanitario, esigeva quantomeno un consenso bipartisan. Per Trump fu una disfatta grave.
Non è solo in questa fase estrema e apocalittica, di fronte alla deriva populista del suo partito, che McCain incarna la tradizione repubblicana più nobile e onesta, quella di un partito che diede all’America Abraham Lincoln e Dwight Eisenhower. Il senatore dell’Arizona aveva cominciato a percepire la degenerazione della destra sin dai tempi di George W. Bush. Contro Bush junior si era battuto per la nomination repubblicana nel 2000 e aveva perso a causa dei colpi bassi dell’avversario (Karl Rove, lo stratega elettorale di Bush, era un pioniere delle fake-news e mise in giro la leggenda che McCain avesse una figlia illegittima da una donna afroamericana). Poi McCain ottenne la nomination nel 2008, e perse contro Barack Obama. Ma fece una campagna da galantuomo, zittì chi voleva cavalcare il razzismo contro il candidato nero. Di Obama presidente lui fu un critico severo in politica estera: McCain era un falco e avrebbe voluto più militari americani in Medio Oriente, Siria inclusa.
Firmò una legge importante, purtroppo inutile, sul controllo dei finanziamenti delle campagne elettorali. In quanto alla politica estera di Trump, fu tra i primi a ostacolarne l’idillio con Putin. Fino al punto da varare sanzioni contro la Russia al Congresso.
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Massimo Gaggi per il Corriere della Sera
Nell’ora più difficile della presidenza Trump, la scomparsa di John McCain elimina non solo il suo principale avversario nel partito repubblicano, l’unico leader pronto a criticare a viso aperto il presidente fino a bollarlo ancora un mese fa, dopo il vertice di Helsinki con Putin, come «una disgrazia, il punto più basso della presidenza Usa, inchinata davanti a un tiranno», ma anche un grande sostenitore, forse l’ultimo, dell’equilibrio sul quale poggia la democrazia americana.
Nell’immediato la conseguenza della sua morte e quella del ritiro del senatore Bob Corker, un altro repubblicano che ha saputo tenere testa a Trump ma poi ha rinunciato a ricandidarsi alle elezioni di novembre, è che i due organismi del Congresso più importanti per il controllo della politica estera Usa — le Commissioni Difesa ed Esteri del Senato — perdono due presidenti autorevoli e indipendenti. I sostituti, James Inhofe al posto di McCain e, probabilmente, James Risch al posto di Corker, sono allineati con la Casa Bianca. Le conseguenze, dai rapporti col Cremlino all’atteggiamento nei confronti della Nato (alleanza essenziale per McCain e obsoleta per Trump) possono essere pesanti.
Ma la fine dell’avventura umana di McCain ha un significato più vasto. Lo si vede già dagli omaggi venati di scoramento pronunciati in queste ore da politici, di destra come di sinistra, consapevoli che The Maverick non lascia eredi. Non ne lascia perché ha difeso con energia le istituzioni Usa, l’equilibrio dei poteri e la democrazia rappresentativa senza esporsi all’accusa dei populisti di farlo in quanto protettore dell’establishment. Perché lui, appunto, è stato il Maverick, lo spirito libero, anticonformista, il politico selvatico e solitario che scudisciava il suo stesso partito. Ma McCain ha anche sempre creduto nella politica come ricerca di soluzioni ragionevoli nel dialogo con tutte le forze parlamentari.
Un anno fa, tornato al Senato dopo aver saputo di avere un tumore incurabile e aggressivo, con la fronte ancora segnata da una lunga cicatrice e un ematoma sotto l’occhio, poco prima di bloccare col suo voto più coraggioso e controverso il tentativo di Trump di cancellare la riforma sanitaria di Obama, McCain chiese ai suoi colleghi di smettere di farsi trascinare dai toni esasperati e radicalizzati di Internet e dei canali all news in uno sterile «muro contro muro».
Paladino della ragionevolezza, cercava di convincere gli elettori anche sui temi più controversi come l’immigrazione (che vedeva come un fenomeno positivo, se ben gestito) battendo l’America, paese per paese, su un bus battezzato «Straight Talk Express»: un parlare in modo diretto e aperto anche con noi giornalisti che venivamo ospitati a turno a bordo per discutere di tutto su un divano a ferro di cavallo. Un bel modo di fare politica, ma non più attuale. Lo sapeva anche lui: riconosceva «con tristezza» che nell’epoca di Twitter lo «Straight Talk Express» resta in garage.
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Stefano Pistolini per il Fatto Quotidiano
L’America pre-trumpiana era così affettuosamente devota al senatore John McCain, scomparso dopo una battaglia col cancro durata un anno, perché si rispecchiava in lui e, nel farlo, si riconosceva perfettamente. Adesso le cose stanno in modo più complicato, ma ciò non toglie che l’omaggio al vecchio maverick, l’anticonformista (come gli piaceva essere soprannominato), sarà sentito e aprirà la strada a dei “come eravamo” che, in questi tempi politici, disturberanno il traballante presidente in carica (“Tanto morirà lo stesso” lo ha spietatamente liquidato recentemente Kelly Sadler, assistente di Trump). Perché McCain ha incarnato, in mezzo secolo di vita pubblica, l’americano ideale, il modello dell’uomo da sposare, del padre da avere, dell’interprete dello spirito di altruismo ed empatia che oltreoceano, a prescindere dalle appartenenze, è considerato il sentimento fondante della nazione, il valore originale coltivando il quale si è arrivati fin qui.
John McCain era la sintesi di alcune prerogative venerate dalla maggioranza dei connazionali – tanto più se si parla di “Buona Vecchia America” bianca, middle class, volitiva e patriottica – a cominciare dall’inestinguibile slancio a battersi per le “buone cause” (svarioni inclusi. Uno per tutti: la legittimità del vessillo confederato). McCain è stato prima di tutto un combattente, salito alla ribalta con l’etichetta di eroe di guerra, come pilota di un jet abbattuto nel ‘67 durante una missione in Vietnam e quindi costretto a una prigionia di cinque anni, costellata di torture e sofferenze. Rientrato in patria, da subito McCain ha personificato la propria storia, sistemandosi stabilmente a Washington in rappresentanza della sua Arizona e continuando a fare ciò per cui sembrava essere nato: dare battaglia. Peraltro, dimostrandosi alla lunga tutt’altro che un vincente: anche questa una caratteristica percepita emotivamente dagli americani, abituati a convivere con l’ansia da prestazione e coi fantasmi dei possibili fallimenti. Di fatto, molte sfide affrontate da McCain nella sua lunga carriera politica, si sono risolte con un insuccesso: ma agli americani questo piaceva lo stesso, perché va rispettato chi si batte con convinzione e in ogni caso perché pesava di più il candore individualistico col quale il biondo senatore si proiettava nella contesa, che l’effetto conclusivo delle sue battaglie. Così, forse perfino sfidando il cliché o in alcuni casi inseguendo il proprio personaggio, McCain col passare del tempo si è trasformato in un prototipo inossidabile dell’immaginario americano: quello del conservatore indipendente e romantico, il tradizionalista colto e spiritoso, animato dal gusto di sorprendere i prevedibili compagni di partito con le proprie sortite bipartisan e con le sue amicizie pericolose coi progressisti dell’altra sponda. Titolare, soprattutto, di posizioni improntate a un populismo “naturale”, ben diverso da quello strillato degli ultimi tempi, ispirato a un culto del buonsenso e ai principi del buon vicinato, del mutuo soccorso, del reciproco sorvegliarsi, che hanno cresciuto e fatto prosperare l’America suburbana del Novecento. È in questo solco che McCain ha vissuto le due principali spedizioni della sua vita politica, entrambe concluse con un verdetto di onorevole sconfitta. È successo nel 2000, quando fronteggiò George W. Bush nelle primarie repubblicane, venendone battuto con onore al punto da diventare naturale aspirante alla Casa Bianca 2008, salvo venir di nuovo travolto dall’onda montante della novità-Obama. Anche in quella occasione McCain piacque agli americani, per la cavalleria e l’eleganza con cui affrontò l’inatteso contendente, stuzzicandolo ma rispettandolo, e addirittura prendendone le difese di fronte ai connazionali che rabbrividivano all’idea di un nero nelle sacre stanze: “È un uomo dignitoso e un buon cittadino, del quale purtroppo non condivido molti punti di vista su questioni fondamentali” disse durante un dibattito, suscitando un’ammirazione bipartisan che oggi somiglia a un reperto archeologico di un mondo politico che non esiste più. Eppure, ancora una volta, McCain perse, perché si trovò a indossare contro Obama i panni del “vecchio che avanza”, a cui credette avventatamente di ovviare scegliendo, per il ticket elettorale, non un abile manovratore politico come Joe Lieberman (che gli avrebbe garantito un buon controllo strategico della campagna), bensì quel fenomeno da baraccone mediatico chiamato Sarah Palin. La maggioranza americana non apprezzò, scelse Obama e costrinse di nuovo McCain ad accettare la sconfitta – per quanto, vista dal nostro presente, quella scelta-Palin sembra meno peregrina che all’epoca, per come tentava di sparigliare le carte della tradizione, puntando su una postpolitica istantanea di cui adesso ci pasciamo giornalmente. Ma, come detto, McCain sapeva perdere e andare avanti. Continuando a combattere per le sue cause, sovente a braccetto con avversari di campo, accomunati a lui dal gusto american-chic per la buona vita: Ted Kennedy e Joe Biden, ad esempio, suoi allegri compari di sigari e cognac, mentre l’inaccettabile per lui aveva le fattezze di quel Donald Trump capace di trasformare in moneta politica la propria guasconeria affaristica. Presto McCain è divenuto il capofila dei repubblicani indisponibili a sottoscrivere l’avvento del deprecabile e rumoroso stile del miliardario palazzinaro: nel 2016 McCain accorda un iniziale, titubante supporto alla candidatura di Trump, ma allorché emergono le prime indiscrezioni sulle sue bravate sessuali, l’appoggio viene ritirato, per essere sostituito con critiche sempre più roventi. Trump ricambia l’antipatia: “McCain non è un eroe di guerra solo perché è stato fatto prigioniero. A me piace chi non si fa catturare”. Da quel momento gli scambi tra i due sono diventati torridi, fino all’imbarazzante epilogo: a fronte delle condoglianze formali inviate dal presidente alla famiglia McCain, Trump non è stato invitato ai funerali del Maverick e la Casa Bianca sarà rappresentata dal suo vice Mike Pence.
In sostanza, il lungo addio che la nazione ha consumato con questa leggenda vivente – su di lui sono appena usciti un documentario agiografico Hbo, intitolato “Per chi suona la campana” come il romanzo del suo amato Hemingway e “The restless wave”, volume autobiografico redatto a quattro mani col suo speechwriter Mark Salter – segna un altro passo nella direzione del distacco sentimentale dell’America da un’idea di se stessa per decenni coltivata con cura. Esce di scena il testimone dei valori nazionali, il “believer in the West”, una potente figura letteraria che di colpo sembra appartenere al passato, o a una minoranza o, peggio ancora, ai noiosi fautori della nostalgia canaglia. Lui era quello de “l’onore prima di tutto” e de “il mondo è un bel posto per cui vale la pena di battersi”. Oggi l’atmosfera è quella di un altro pessimismo, di un perenne sospetto, del guardingo egoismo. Tempi che cambiano. A sorpresa però, McCain stavolta potrebbe vincere, proprio congedandosi e, così facendo, storicizzandosi. Ovvero diventando un monumento stabile a qualcosa che non c’è più. E di cui, presto o tardi, da quelle parti si potrebbe cominciare a sentire una grandissima mancanza.