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 2018  agosto 26 Domenica calendario

Un’aggressione ogni due giorni. Ecco chi spara agli stranieri

«Comincio la giornata così. Felicissimo». Per Lorenzo Rigano, 37 anni, nato e cresciuto a Partinico, periferia di Palermo, il buongiorno migliore è in compagnia di una Moretti al «suo» bar. È anche lui tra i protagonisti dell’estate della caccia allo straniero. Bilancio provvisorio: dodici assalti armati, più di trenta aggressioni fisiche e due omicidi. Ma chi sono gli aggressori? Si può tracciare un identikit? Scorrendo tra gli scatti pubblicati su Facebook, si capisce subito che per Rigano un bicchiere è il modo migliore per iniziare una giornata come per concluderla. Da solo o anche in compagnia del cugino, Gioacchino Bono, 34 anni, come lui agli arresti domiciliari per aver pestato Kalifa Dieng, 19 anni, senegalese. 

La sera del 26 luglio i due erano insieme, seduti come sempre al «loro» tavolino. Da lì hanno visto Kalifa nella piazzetta Santa Caterina. Due alberi spelacchiati e tanto cemento. Era solo, hanno iniziato a urlargli contro: «Vattene via sporco negro. Ve ne dovete andare da questo paese». Lui non se ne va. Il ragazzo non reagisce, qualcuno lo tiene fermo. Arrivano le botte, le risate di chi sta a guardare. L’ultimo post di Rigano è una canzone del rapper napoletano Rocco Hunt, dedicato al cugino, che fa così: «Noi ovunque andremo torneremo sulla strada, torneremo nel cemento».
Fotografie e post raccontano il suo piccolo mondo: la passione per i cani, i pitbull su tutti, gli scatti con i figli, Giorgia e Brian. I nomi restano tatuati sul braccio, ma anno dopo anno le fotografie con loro sono sempre meno. Gli piacciono i film dove ci si mena, il Milan, il rap e i cantanti neomelodici. Più o meno gli stessi gusti del cugino, foto profilo con la bimba in braccio che mostra il dito medio, a seguire piatti di pasta, il cappuccino con su le scritte di cioccolato, gli scherzi e le birre al cantiere. Non ci sono partiti, proclami politici, nessun giornale né lettura tranne Pinocchio, Dracula e qualche altro titolo famoso nella sezione social dedicata. 
Dietro alle botte e agli insulti non sembra nascondersi ideologia, ma noia e rabbia. Che spesso, ben miscelate, esplodono con la miccia dell’alcol. Lo stesso copione triste e ammantato di normalità quest’estate si è ripetuto troppe volte per essere liquidato come un caso. 
Nell’entroterra siciliano
A Napoli il 20 giugno Bouyagui Konate, cuoco, 22 anni, da 4 in Italia, viene aggredito con un fucile a pallini da un’auto in corsa. Un mese dopo a Forlì due casi in una settimana, stessa dinamica. A Latina Scalo, 11 luglio, colpi di pistola ad aria compressa contro un gruppo di migranti alla fermata dell’autobus. A Bruzzano, nel Milanese, un 42enne dello Sri Lanka viene minacciato con un taglierino e picchiato da un 55enne, «perché quello parlava al telefono nella sua lingua e mi dava fastidio». A San Cipriano d’Aversa, periferia catanese, 26 luglio, due ragazzi in moto sparano in faccia a un migrante, ancora con una pistola ad aria compressa. Seguono Aprilia, Moncalieri, Terracina. Ad agosto è ancora peggio, la lista si allunga. 
Cambiano le latitudini, ma gli insulti restano gli stessi. Ai classici dedicati a chi ha una pelle di colore diverso si aggiungono le varianti dell’ormai sdoganato «Tornate a casa vostra». «Siete troppi». «Li dobbiamo tenere tutti noi». «Bello prendere 35 euro al giorno per stare in hotel con il wi-fi». A sentirle e risentirle, urlate nei talk show da politici e commentatori in giacca e cravatta, va a finire che frasi che un tempo avrebbero fatto se non arrossire, almeno vergognare un poco, diventano normali. Come dice il procuratore di Torino Armando Spataro, così « si rischia di far credere che in democrazia sia consentito il rifiuto di chi è diverso. Ma chi guida il Paese non dovrebbe suscitare equivoci nei cittadini non avveduti». 
I luoghi che ospitano questo tranquillo Far West a senso unico sono tutte periferie dimenticate, Nord o Sud poco importa. La politica è lontana, l’integrazione un bell’obiettivo su cui però nessuno ha mai lavorato per davvero. Lercara Friddi, seimila anime nell’entroterra siciliano, è un paese di disoccupazione ed emigrazione. Muri scrostati e saracinesche abbassate, moltissime case in vendita, per arrivare a Palermo ci sono 60 chilometri di vecchia statale, dove i lavori vanno avanti da una vita e per farla in macchina ci vogliono quasi due ore. La notte del 21 luglio in paese c’è il My Way Festival, dedicato a Frank Sinatra, che è originario di qui. Lui, e il gangster Lucky Luciano. Al Pub 51 c’è la serata «silent night», vuol dire che si balla con la musica in cuffia. 
Poco più in là, sul muretto di un’altra piazzetta, se ne sta Giuseppe Cascino, 29 anni, magazziniere. È ubriaco, come capita sempre più spesso. Ha perso la mamma sei mesi fa, la fine di un brutto male che si portava dietro da anni. Anni brutti, con il negozio di abbigliamento dei genitori costretto a chiudere, non si lavora più come una volta. Cascino butta il cappellino a terra, chiede a Davide Mangiapane, 23 anni, italiano dalla pelle nera, arrivato da un paese vicino per la festa, di raccoglierlo. Lui si rifiuta, inizia il pestaggio. Tutti ridono, lo incitano. Per una volta, almeno una per una volta, il palcoscenico è suo. Anche se non porta la cravatta, per una volta si può sentire dalla parte del più forte.
In paese conoscono tutti lui e pure la storia della famiglia. L’hanno visto con il bicchiere in mano un po’ troppo spesso, con una gran voglia di alzare le mani. Dicono che cercava rissa con tutti, tanti quella notte l’hanno sentito dire «Sporco negro». «Non lo difendo, ma non è un razzista. Siamo quasi coetanei, cresciuti insieme - commenta Luciano Marino, sindaco 31enne -. Qui non c’è l’estrema destra, non ci sono i centri sociali. C’è l’alcol, troppo. Giuseppe non va giustificato. Ma andrebbe aiutato».
A Lercara non si possono più vendere alcolici dopo le tre di notte, Davide è già tornato in piazzetta e in paese non è successo più nulla. A Partinico invece no. Nel borgo palermitano ci sono quindici strutture dedicate ai migranti tra comunità e centri di accoglienza. Sono 300 persone, non tantissime. Ma crescono, con i numeri della disoccupazione. Una comunità che diventa più povera, con i tagli ai servizi sociali. E si fa più violenta. A Ferragosto cinque migranti minorenni sono stati insultati e picchiati mentre aspettavano un pulmino. Quattro aggressori sono stati identificati, sono dei giovani del posto, accusati di lesioni aggravate dall’odio razziale. Sono giovanissimi, anche in questo caso «famiglie normalissime». Niente generalità. «Sono dei ragazzini. Dare i loro nomi ai media vorrebbe dire esporli da entrambe le parti - spiega un investigatore -. Sia alle critiche feroci, che ai complimenti dei fanatici».
Niente nomi nemmeno per i quattro ragazzi che a Terracina, provincia di Latina, hanno sparato con i fucili a pallini contro un bracciante agricolo di ritorno in bicicletta dai campi. Gli schiavi del caporalato non sono solo in Puglia, ma esistono anche nelle campagne dell’Agro Pontino, tra Terracina, Sabaudia e Latina. 
A giocare al tiro al bersaglio sono stati due 18enni, tra cui una ragazza, la prima e al momento l’unica, un 19enne e un minorenne. A Terracina al momento l’aggravante dell’odio razziale non c’è. Sui social nessuna appartenenza a gruppi di estrema destra, niente politica. Le famiglie sono modeste, operai che lavorano nelle fabbriche della zona. 
La loro spiegazione è la stessa che hanno dato i tre ragazzi di Moncalieri, Torino, che hanno tirato un uovo in faccia alla campionessa d atletica Daisy Osakue: «Era solo un gioco». Due di loro, Federico De Pasquali e Fabio Montalbetti, 19 anni, sui social hanno la stessa immagine del profilo. Selfie allo specchio, dita a V con il dorso della mano rovesciato, che vuol dire «vaffanculo». Tra i like ci sono un’infinità di calciatori, i Simpson, nessuna lettura, né politica. Frase cult, dall’hip hop: «Chi ha trovato se stesso e adesso fotte il mondo, chi invece ha perso il treno e ora ci corre contro». 
A colpi di aria compressa
Nella provincia di Latina non ci si picchia e basta, né ci si limita a lanciare le uova. Ma ci sono le pistole. Anche se non vere, possono uccidere. Lo scorso 29 luglio ad Aprilia Giovanni Trupo, guardia giurata, e Massimo Riccio, autista Atac, entrambi 45 anni, escono dopo una serata in pizzeria con le famiglie nel complesso Trentastelle. Palazzoni costruiti a metà come le strade, erba alta e calcinacci abbandonati un po’ dappertutto. Inseguono un’auto, dentro c’è Hady Zaitouni, marocchino con qualche precedente per furto. E nelle scorse settimane proprio tra quei palazzi, nelle case di famiglie che di certo ricche non sono, di furti ce ne sono stati parecchi. Hady scende, c’è una colluttazione. Lui non si rialza più, i due scappano. Sono indagati per omicidio preterintenzionale, l’autopsia dice che è morto per un pugno in faccia. 
Riccio portava con sé la sua pistola da Softair, tutti e due sono appassionati di questa disciplina, che si fa la guerra per finta. Ci sono dei club, due su tre ad Aprilia hanno come logo uno scudo nero, con i numeri romani. Tutti hanno un nome di battaglia, si gioca con la mimetica. Queste pistole hanno la potenza di un solo joule, l’unità di misura dell’energia, i proiettili sono di plastica. Ma basta cambiare la molla e un paio di valvole per modificarle, aumentare la gittata e renderle pericolose.
“Era solo un gioco” 
Così ha fatto Marco Arezio, 59 anni, ex dipendente del Senato, indagato con l’accusa di lesione gravissime per aver sparato dal suo terrazzo colpendo alla schiena una bimba rom di un anno. Quartiere Torre Spaccata, periferia romana. C’è un giardinetto lì sotto, con qualche gioco per bambini rotto, la solita distesa di erbacce e immondizia. La piccola è ancora in ospedale, lui dice: «Non sono un razzista, sono un padre di famiglia. Sono disperato». Perché sparare dal terrazzo? «Volevo solo provare la carabina». 
Anche questo è solo un gioco, un normalissimo gioco. L’altro non è una persona, non ha un nome né una storia. Non c’è una bimba in braccio alla mamma, un lavoratore stanco che torna a casa, dei ragazzi in vena di fare festa. Persone che vivono accanto a noi, magari un po’ peggio di noi. Loro sono diversi, sono deboli. Sono tutti uguali e sono nel posto sbagliato. Sono dei bersagli, così colpirli non fa paura. Fa solo ridere.