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In una casa di riposo alla periferia di Modena, vive Gian Pio Torricelli. È una tarda mattina di caldo e di pioggia leggera e appiccicosa. Dopo molte insistenze l’editore Carlo Bonacini, nipote di Gian Pio, è riuscito a organizzare l’incontro con un uomo che per me è un mistero. A dire il vero lo è anche per i suoi ex amici, gli stessi che avevano dato vita al Gruppo 63. Vi racconto questa storia perché l’Italia coltiva il sorprendente in zone impensabili. Ma occorre fare un piccolo passo indietro. Circa un paio d’anni fa, era l’ottobre del 2016, a La Spezia si celebrava uno dei tanti anniversari possibili del Gruppo 63. Ero lì, incuriosito e convinto di assistere a una melanconica parata di reduci. C’erano Nanni Balestrini, Lamberto Pignotti, Renato Barilli, Angelo Guglielmi, Fausto Curi. Umberto Eco era morto da alcuni mesi. Sanguineti nel 2010. Fu durante quella sessione di ricordi e puntualizzazioni che qualcuno cominciò a rievocare la figura di Gian Pio. Molto amato da Eco e Sanguineti, quasi a testimonianza della più incredibile tra le meteore letterarie. Meteora nel vero senso della parola. Prima c’era e poi non c’era più. Sparito. Cancellato. Fu a quel punto che qualcuno (non ricordo chi) accese un radar e disse che Gian Pio era vivo e che forse sarebbe venuto. Chi lo aveva visto l’ultima volta, rammentava un uomo magro, dal cranio levigato, gli occhi a spillo e totalmente silente. Contro ogni previsione arrivò, accompagnato dal nipote e da un vecchio attore di Modena che in seguito avrebbe letto alcuni suoi componimenti. La cosa più incredibile, a detta dei presenti, è che Torricelli a un certo punto prese la parola. Si espresse in una lingua piana e sbiascicata. A tratti stravagante. Ma essenziale. Come provenisse da un altro mondo. Valeva la pena conoscerlo? Io credo di sì. Ed è la ragione per cui oggi sono davanti alla porta della sua stanza. Sul cartellino c’è scritto Gian Pio. Busso. Nessuno risponde. Entro timidamente. È vestito, seduto sul letto, mentre con un rasoio elettrico si fa compulsivamente la barba. È glabro. Calvo. Siderale. Il nipote gli ha portato delle pastarelle. È ghiotto di dolci. Sembra assente. C’è solo il ronzio del rasoio a riempire il vuoto di quella mattina.
Disturbo?
«No, non disturba. Ma non l’attendevo a quest’ora».
Non è presto. Mi hanno detto che è il momento migliore.
«Per chi: per lei?».
Cosa sta facendo?
«Mi rado, mi rado spesso. Più volte nel corso della giornata».
Com’è una sua giornata?
«Sono tutte uguali, le giornate».
Anche la notte?
«Non lo so. La notte dormo».
E sogna?
«Non sogno. Il sogno poi se ne va con le prime luci del mattino. Ma la notte accadono cose che il giorno non deve sapere».
Che cosa non si deve sapere?
«Durante la notte si scatenano le paure. La notte siamo inermi, indifesi, attaccabili».
Lei si sente attaccato?
«A volte sì. Bisogna proteggersi dalle tenebre. Mi difendo a volte dormendo, a volte vigilando».
Sta bene qui?
«Mi faccio la barba, mangio, esco, passeggio, fumo. Non mi fanno fumare in camera. Anche adesso che sono solo».
Prima non lo era?
«Dividevo lo spazio con un altro. È difficile convivere. Lui voleva la televisione spenta, io accesa. O viceversa. Io desideravo la luce lui il buio. Lui mi chiedeva la qualunque io tacevo. Problemi di convivenza. Mi piace stare solo».
Allora adesso sta bene?
«Non lo so. Come faccio a saperlo? Qui si sta in attesa di stare bene. Sto bene senza stare veramente bene».
Come passa le ore?
«Glielo ho detto: barba, passi, fumo, mangiare. Adoro i dolci: soprattutto le paste alla crema e al cioccolato. Non ho voglia di salato, come non ho voglia di parlare con altri».
Perché?
«Il silenzio mi piace. È degno. È la mia sola risorsa. Bisogna imparare a stare zitti. Dove ci siamo conosciuti?».
A La Spezia. Arrivò come un Messia. Ad attenderla c’erano Balestrini, Barilli, Guglielmi e altri del Gruppo 63.
«Ah, quel manipolo di pazzoidi. C’era anche Umberto Eco?».
No, Eco era morto.
«Mi dispiace, lo sa ci scambiammo varie lettere. Pensava che fossi un grande poeta».
Quel giorno a La Spezia lo dicevano tutti.
«E io che cosa ho detto?».
Dopo anni di silenzio ha parlato. Per la prima volta ha parlato.
«Ricordo la voce di uno che recitava le mie poesie».
Era un attore.
«Eco diceva che la mia poesia, come quella di Patrizia Vicinelli, era come l’esplosione di una bomba. Disse che la poesia di Torricelli era fatta da ircocervi verbali, tra il liturgico e il biologico».
Lo disse quando?
«Lo scrisse in occasione della prima volta, più di cinquant’anni fa, in cui il Gruppo 63 si vide a La Spezia».
C’erano tutti?
«Non me lo ricordo. Però ricordo che leggevo le mie poesie davanti a un uditorio che sembrava preparato a tutto e invece finì visibilmente sotto shock. Mi pare fossero delle parti di Zonacesarini. Credo che aprii più di uno spiraglio sull’avvenire della letteratura».
Come si manteneva?
«I miei erano abbastanza ricchi. Gente che veniva dal commercio ambulante. Poi mio padre aprì un negozio di scarpe».
E lei vi lavorava?
«Mai lavorato».
Studiava?
«Sono stato un mediocre studente. Quando venni bocciato alle superiori mio padre mi regalò una spider bianca. Giravo sulle strade del modenese felice di farmi vedere».
Esibizionista?
«Mi piaceva primeggiare con gli amici e con le donne».
Da bambino com’era?
«Dicevano fossi socievole, da bambino. Mi piacevano la geografia e il calcio. Sono stato nelle giovanili del Modena. Più grande, riuscii a diplomarmi all’Istituto d’Arte Venturi».
Ama l’arte?
«All’inizio preferivo la musica. Desideravo scendere nelle profondità di Bach e perciò imparai a suonare l’organo».
Perché ha smesso?
«Fui bandito da tutte le chiese di Modena. Dissero che ero troppo invadente. E poi mi piaceva cantare. Soprattutto i Platters. Cantavo Only You. Imitavo qualunque cosa. Mi esibii al Teatro San Pietro di Modena come Tony Platters. Cominciai a dipingere».
Cosa dipingeva?
«Tra l’altro ritratti di donna. Donne dagli occhi grandi, dai nasi affilati, dai colli modiglianeschi. Fu in quel periodo che mi arrivò la cartolina per il servizio militare. Feci di tutto per evitarlo».
Ci riuscì?
«Mi congedarono con un referto in cui si diceva che ero affetto da personalità schizofrenica».
Ed era vero?
«Certo che no; i medici non sanno niente del cervello umano. Sono saccenti. Non sapevo che quella diagnosi mi avrebbe portato dritto in un manicomio criminale. Comunque, invece di fare il soldato mi sono inventato poeta».
Cosa scrisse?
«Un libretto che intitolai Stechiòtrono. Erano parole liberate. Poi scrissi: Dunque cavallo. Qualcuno sentenziò che insieme a Adriano Spatola, Giorgio Celli e Corrado Costa avevamo creato il gruppo dei parasurrealisti».
Chi lo scrisse?
«Mi pare fosse stato Luciano Anceschi».
È vero che dopo la pubblicazione di “Dunque cavallo” Einaudi si interessò a lei?
«È vero, c’era un progetto legato a una nuova collana diretta da Edoardo Sanguineti. Ma non se ne fece niente. La collana fu abortita. E io con essa. Ma Sanguineti continuò a interessarsi a me».
In che modo?
«Ci scambiavamo lettere piene di progetti. Gli dissi che mi sarebbe piaciuto vedere le mie poesie musicate e cantate. Pensai di farne cantare qualcuna a Laura Betti».
Conosceva l’attrice?
«No, ma sapevo che viveva a Roma».
Provò a incontrarla?
«La vidi quando decisi di trasferirmi a Roma, nel 1967».
Si trasferì per incontrare lei?
«Mi trasferii perché Roma era il centro di tutto. E Modena il centro di niente. Volevo fare il cinema, volevo scrivere. Volevo incontrare Fellini».
Lo ha visto?
«Sì, i miei amici non ci credevano. Riuscii a incrociarlo e a dirgli che volevo scrivere per lui».
E lui?
«Lo incuriosivo, come una bestia da circo».
E a parte Fellini, chi vedeva?
«Andai a vivere in una stanza di via Panisperna. Vedevo quelli del Gruppo 63: Alfredo Giuliani, qualche volta Giorgio Manganelli. Incontravo spesso Emilio Villa e Aldo Braibanti».
E il progetto per la Betti?
«Prima ci scrivemmo poi quando fui a Roma andai a trovarla. Andavo a cena da lei. Era molto interessata all’idea di cantare certi miei versi. Ma alla fine non concludemmo nulla. Era una grande madre protettrice. Ma anche imprevedibile. Più di me. Da lei conobbi Pasolini. Sembrò interessarsi più a me che alla mia poesia. In quel periodo scrissi Coazione a contare che fu pubblicato da Lerici».
Quel libro era una provocazione vera e propria.
«Dice? Si atteneva al titolo. Per una cinquantina di pagine erano stampati a lettere i numeri da uno a 5.132. Eco disse che per l’avanguardia si era chiusa un’epoca e se ne apriva un’altra».
Perché ha smesso di scrivere?
«Non c’è un perché. Si smette e basta».
È stato una splendida meteora.
«Mi sono lasciato andare. La cosa migliore è lasciarsi andare quando stai male. A volte la notte restavo sveglio: a fumare, a guardare la televisione, a tenere a bada i nemici».
Di cosa soffriva?
«Non me lo ricordo. Mi hanno ricoverato più volte».
Non ricorda la prima volta?
«Ero nella mia casa di Modena. Vivevo con i genitori. Da settimane non uscivo dalla mia stanza. Loro bussavano, imploravano, minacciavano. Niente. Poi arrivarono gli infermieri. Non ricordo molto. Alla fine riuscirono a entrare nella stanza. Erano preoccupati. Mi dissero che dal fumo che c’era non si vedeva nulla. Che ero disteso sul lettino ma non avevo un aspetto aggressivo. Mi chiesero se potevano spegnere la televisione. Poi mi adagiarono su di una barella».
Ha avuto altri ricoveri?
«Parecchi, sì. A Roma finii a Santa Maria della Pietà. Pare che abbia dato in escandescenze con dei poliziotti. Mi portarono prima a Regina Coeli e poi mi trasferirono all’ospedale psichiatrico. Venne mio padre Terenzio a riprendermi».
Che ricordo ha di suo padre?
«Che è morto nel 1986. Non andai neppure al suo funerale. Non so se gli ho voluto bene. Le due cose che rammento di lui sono l’automobile che mi regalò e un telescopio che mi diede da bambino».
Le piace guardare il cielo?
«Sì, ma preferisco guardare il sole. Centocinquanta milioni di chilometri da noi. Il sole è Dio. Sono cinque miliardi di anni che Dio c’è».
E prima?
«Prima c’era il nulla. È il nulla che crea la vita. Dio è una conseguenza del nulla. Da allora Dio è ovunque anche in un uomo piccolo piccolo come me».
È religioso?
«Non lo sono, ma penso che nessuno di noi muoia veramente».
Le hanno dato un nome tenuemente religioso.
«Tenuemente? È un nome appiccicoso, infantile, ridicolo. Anche a mia sorella affibbiarono il nome di Maria Pia. Tutti pii in famiglia!».
Le manca la scrittura?
«No, ho avuto il mio tempo. Ogni cosa ha il suo tempo. Dovrà passare almeno un milione di anni prima che ricominci a scrivere. Il solo rimedio nella mia vita è la continenza».