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 2018  agosto 26 Domenica calendario

Intervista a Yuval Noah Harari, il guru del futuro

In un mondo alluvionato da informazioni irrilevanti, la lucidità è potere”, scrive Yuval Noah Harari nel suo nuovo, attesissimo saggio, 21 lezioni per il XXI secolo, da mercoledì in libreria per Bompiani. Una bussola per navigare nelle difficoltà dei tempi che corrono, uno di quei pochi libri che provano ad abbracciare tutto (o quasi) come le grandi “storie dell’umanità” di un tempo, alla ricerca – diremmo oggi – di una “narrazione”. Classe 1976, alle spalle un dottorato in storia alla Oxford University e la cattedra presso la Hebrew di Gerusalemme, oggi Harari è una celebrità. Con Sapiens. Da animali a dèi,uscito da noi nel 2014, questo ricercatore israeliano dichiaratamente gay è diventato famoso in tutto il mondo grazie ai 5 milioni di copie vendute, sì, ma anche grazie al passaparola di lettori d’eccezione, a partire da Barack Obama. Ha continuato a colpire con il suo secondo saggio, Homo Deus, del 2017. E dopo aver volto lo sguardo sul passato, prima, e sul futuro, poi, ora guarda al presente con questo suo terzo libro. E lo fa a trecentosessanta gradi: politica, intelligenza artificiale, disillusione, post verità, ignoranza, lavoro, immigrazione, nazionalismo ed Europa, per la quale nutre stima. Un pensiero complesso, direbbe Edgar Morin, ma che ha poco di filosofico in senso tradizionale: «Spesso non ci accorgiamo neppure che un dibattito è in corso, o quali siano le questioni importanti » , premette. « Miliardi di noi possono a stento permettersi il lusso di approfondire queste domande, poiché siamo pressati da altre urgenze: lavorare, prenderci cura dei figli o assistere i genitori anziani. Purtroppo la storia non fa sconti. Se il futuro dell’umanità viene deciso in vostra assenza, poiché siete troppo occupati a dar da mangiare e a vestire i vostri figli, voi e loro ne subirete comunque le conseguenze. Certo, è parecchio ingiusto. Ma chi ha mai detto che la storia è giusta?» Nelle sue 21 lezioni affronta di tutto. Proviamo a riassumere scendendo a 10? Partendo, magari, proprio dal modo in cui affronta il tema della conoscenza.
«Abbiamo una conoscenza del mondo limitata e approssimativa, che è diminuita nel tempo. Almeno un cacciatore raccoglitore dell’Età della pietra sapeva come cucire i propri abiti, accendere un fuoco, procurarsi il cibo. Crediamo di avere conoscenze più vaste, ma presi singolarmente ne sappiamo meno. Facciamo affidamento sulla conoscenza degli altri, ambienti di amici con idee simili che si autoconfermano sui social. E così anche non sapendone nulla, c’è chi propone politiche per il cambiamento climatico. Il “pensiero di gruppo” è così forte che quando sbaglia non cede nemmeno davanti all’evidenza. Vale per i cittadini, vale per i politici e gli amministratori delegati. E gli scienziati riescono a far poco presentando dati e ricerche, fraintendono il nostro modello cognitivo. Forniscono però un modello: anche se a volte sono in disaccordo, si ascoltano e sanno che ogni argomento deve avere una base scientifica».
La politica. Siamo alla fine del pensiero liberale?
«Il pensiero liberale è entrato in crisi malgrado più di altri abbia saputo coniugare differenze sociali, di reddito, ideologiche grazie alla crescita economica. Oggi stiamo affrontando delle sfide cruciali eppure in tanti Paesi il dibattito politico si concentra su aspetti poco rilevanti. Ci serve una nuova narrazione su cosa è il mondo e su cosa dobbiamo fare, anche se ci troviamo in una fase di disillusione nichilista e di rabbia».
La tecnologia e i suoi pericoli. È una delle sfide più grandi che ci aspetta?
«Non abbiamo ancora capito l’impatto che avranno sulla società e i suoi equilibri l’intelligenza artificiale (AI) e l’automazione. Stiamo rischiando di distruggere non solo milioni di posti di lavoro, ma di trovarci in una situazione nella quale gli impieghi vecchi verranno eliminati e ne verranno creati di nuovi a ciclo continuo. I nostri figli passeranno la vita a reinventarsi e dobbiamo chiederci se le persone sono emotivamente preparate ad un’esistenza di sconquassi senza fine. Ma questo è vero per persone che avranno una formazione elevata. Gli altri potrebbero invece formare una nuova classe di individui inutili su scala planetaria. La prima classe globale di disoccupati permanenti».
Reddito di cittadinanza. È questa la soluzione?
«In un’economia interconnessa e globale, le soluzioni locali hanno poco senso. Tecnologia e AI faranno progredire di molto certi Paesi mentre potrebbero portare al collasso altri. L’Italia, malgrado i suoi problemi, è una delle nazioni più ricche ed ha un tradizione industriale di livello. Altrove non andrà così bene. Bisogna puntare a una rete di “sostegno universale minimo”. Il rischio altrimenti è di veder sorgere ondate di risentimento. Negli Stati Uniti ci sono più di trecento milioni di abitanti e quasi quattrocento milioni di armi da fuoco. E dove non si ricorrerà alle armi, per sfogo alla propria frustrazione si finirà per seguire quei partiti che prometteranno l’impossibile, tornare ai bei tempi andati ad esempio, con posizioni sempre più estreme. Dobbiamo invece cooperare, perché il collasso economico di una parte del mondo avrà effetti sul resto provocando fra l’altro flussi migratori immensi».
Immigrazione. Come mai non prende una posizione su questo tema?
«Sia chi la vuole contrastare sia chi invece pensa sia una risorsa ha delle ragioni dalla sua parte. Mi limito a costatare che nel caso dell’Europa, in una comunità che funziona e collabora, qualche milione di immigrati su una popolazione di mezzo miliardo di abitanti non sarebbe stato un vero problema».
Unione europea. Per lei è un modello, eppure in tanti ormai la mettono in discussione.
«È vero, stiamo andando esattamente nella direzione opposta rispetto a quella che andrebbe presa. Non credo che senza il nazionalismo vivremmo in un paradiso. Il nazionalismo ha un suo valore. Resta però il fatto che problemi globali si risolvono con soluzioni globali, come dicevamo. Nel 2016 sono morte meno persone a causa di guerra e violenza che per obesità, incidenti stradali o suicidio. Massimo risultato politico dei nostri tempi. Ma siamo così abituati a tutto ciò che lo diamo per scontato e c’è chi si è messo a giocare con il fuoco, basti pensare alla nuova corsa agli armamenti. Il dibattito sulla Brexit si è concentrato sull’aspetto economico e sull’immigrazione, dimenticando il contributo vitale dell’Unione europea. Per la prima volta in secoli e secoli francesi, tedeschi, italiani, inglesi, spagnoli hanno avuto un meccanismo che ha assicurato una certa armonia. Finché qualcuno con un referendum ha buttato negli ingranaggi una chiave inglese. È difficile invertire questa tendenza, ma bisogna farlo. Non ci sono alternative».
Fake news, “pensiero di gruppo”, post verità. È questa la nostra epoca?
«Bisognerebbe chiedersi quando è finita l’era della verità. Facebook, Donald Trump o Vladimir Putin non hanno inaugurato nulla. Per millenni quel che abbiamo tramandato come fatti veniva da scritture sacre fatte di miracoli, angeli e demoni. Senza dimenticare che da sempre la politica non punta ai fatti ma alle emozioni. Nel bene e nel male il narrare è uno strumento storicamente importante e le notizie false sono un problema più complesso di quel che crediamo. Dobbiamo imparare a dividere narrazione e realtà ricordando che una delle favole di maggior successo è quella di negare la complessità del mondo pensando per estremi, dividendo tutto in bianco e nero. E bisogna scegliere bene le notizie: quelle gratuite vengono fornite in cambio dell’attenzione delle persone, dunque finiscono per esser più sensazionali o per confermare le credenze dei lettori. In qualsiasi altro campo, se vuoi una cosa di qualità la paghi e nessuno obbietta in merito».
Lei sostiene che per capire cosa sta accadendo sia meglio rivolgersi a Karl Marx che a Steven Spielberg. Ma il vero realismo sarebbe quello di “The Truman Show” e “Matrix”.
«La fantascienza è irrealistica quando racconta di scontri fra noi e i robot. La tecnologia rischia di creare una delle società più diseguali della storia con una élite che ha accesso alla nuova medicina basata su algoritmi e dati, e capace così di vivere a lungo. Mentre la massa se la passerà sempre peggio. Rischiamo che il potere dei dati e quello economico coincidano con bellezza e longevità, tutto concentrato in poche mani. E l’élite sarà aiutata da perfette manipolazioni, come in Matrix e The Truman Show, così da sviare l’attenzione permanentemente su problemi minori».
La realtà. Esiste ancora?
«Sì, è ancora lì. Ma è facile ingannare l’umanità. Quando le pitture rupestri si sono evolute in programmi televisivi, illudere è divenuto semplice. In un prossimo futuro gli algoritmi perfezioneranno il processo. Questo però significa che abbiamo ancora del tempo. Possiamo ancora scegliere, a patto di muoversi subito».
La paura. Cosa la spaventa di più?
«La tendenza al localismo, il buttare al vento quel che è stato costruito per una società globale che ha fatto enormi progressi. Ma ho una speranza: possiamo rimediare. Ed è per questo che ho scritto 21 lezioni per il XXI secolo».