Un altro libro su Leonardo. C’è ancora qualcosa che può sorprenderci?
ANTONIO FORCELLINO: «La storia dell’arte è stata a lungo ostaggio dell’accademia, un rito misterico per pochi. Ultimamente invece si sta recuperando la modalità del racconto a tutto tondo, cui noi però possiamo aggiungere una novità sostanziale: il privilegio di dire la verità senza le reticenze di chi scriveva nell’Ottocento e a inizio Novecento. Penso all’omosessualità di Leonardo. Oggi possiamo scrivere che era omossessuale e che amava i giovani senza censure morali, sciogliendo i nodi di chi se ne è occupato prima di noi. Prendiamo ad esempio Freud e il suo Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci del 1910. Il padre della psicanalisi appare mortificato nell’affrontare un aspetto che considera squalificante e fa una excusatio che offende la mia sensibilità di contemporaneo: sostiene che la sua omosessualità non era agìta. Il che non solo è falso, visto che negli archivi c’è perfino una denuncia contro di lui per sodomia, ma è squalificante per Leonardo. Che è bello, elegante, e capace di conquistarsi la libertà di non lasciarsi dettare l’agenda da nessuno. Nemmeno quella sessuale. Questo segna la sua arte, di cui peraltro la bellezza adolescenziale è un perno. Come possiamo capire ilSan Giovanni Battista o la Gioconda senza tenerne conto? L’altro punto che mi interessava sfatare era la visione di Leonardo come Genio solitario che appare improvvisamente sulla scena per dare avvio al Rinascimento».
Se Leonardo non è un genio solitario, se non lo sono nemmeno Michelangelo, Raffaello o Tintoretto, come va letta la rivoluzione rinascimentale?
FORCELLINO: «Il cambiamento va visto nel contesto. Il Rinascimento produce grandissima arte perché gli uomini prendono in mano il proprio destino. Non vale solo per i pittori: pensiamo all’ambizione dei Borgia o dei Medici. Lo spirito dell’epoca è nella capacità di individuare il talento combinata alla certezza di poter cambiare il mondo. Una fiducia che abbiamo perso e che mi pare sia altrove, in Cina o negli Stati Uniti. Quest’ambizione noi italiani l’abbiamo addirittura teorizzata, con Machiavelli e il suo Principe. Scrivere del nostro Cinquecento significa dar conto di questa faccia e dell’altra, che le è speculare: la divisione politica italiana, l’incapacità di trovare una via comune; ovvero i germi negativi di ciò che siamo oggi. Nel romanzo ho cercato anche di illuminare dinamiche che a lungo sono state viste come periferiche e invece sono centrali. Non si capisce la commissione di Sisto IV per la decorazione della Cappella Sistina senza considerare la minaccia turca all’Europa. Senza l’assedio dei Turchi ad Otranto, nel 1480, non è chiaro cosa accade a Roma».
MELANIA MAZZUCCO: «Concordo sul fatto che il contesto è fondamentale. Ho scoperto Tintoretto rimanendo folgorata dalla Presentazione di Maria al Tempio nella chiesa veneziana della Madonna dell’Orto. Poi ho cominciato a studiare la sua vita e insieme la storia di Venezia, dove ovviamente quel rapporto con l’Oriente musulmano di cui parli è centrale. La repubblica veneziana è un unicum proprio per la capacità di mediare con questo nemico, che è al tempo stesso il suo mercato e la sua risorsa. Venezia usa l’arte per celebrare tutto ciò. L’aristocrazia fodera letteralmente di pittura i suoi palazzi, i borghesi lo fanno per le loro scuole. Persino gli artigiani hanno quadri in casa. L’arte è diffusa».
Il genio non viene dal nulla, ma cresce nella bottega. Regge il paragone con una "factory" alla Warhol?
FORCELLINO: «Nella bottega rinascimentale, non nelle università, nasce la modernità empirica: è il luogo non di un semplice apprendistato ma di uno scambio di conoscenza, di trasmissione del sapere artistico e scientifico. Penso alla bottega fiorentina del Verrocchio in cui si forma Leonardo. Per andare alla corte di Ludovico il Moro Leonardo scrive che sa costruire le bombarde. Dove ha imparato? Con Verrocchio. Lo stesso meccanismo vale per Michelangelo o Raffaello. Lui sì un vero Warhol ante litteram per come mette a frutto le ricerche degli altri».
MAZZUCCO: «Tintoretto usa la bottega per adottare una strategia di marketing rivoluzionaria: lavora al costo, facendosi pagare solo i colori e il materiale, e il prezzo si stabilisce a lavoro finito. E dipinge più rapidamente degli altri, quindi nel suo ambiente è visto come un pirata. È un grande solitario. Alla fine della carriera, quando entra nella confraternita di San Rocco e dipinge le pareti della scuola, si fa praticamente committente di sé stesso. Con una libertà creativa strepitosa: disegna direttamente sulla tela e la sua pennellata è quella degli artisti di tre secoli dopo. Non a caso quando Édouard Manet vede il suo autoritratto al Louvre lo rifà».
Questa capacità del " fare" è persa per sempre?
MAZZUCCO: «Penso ai marchi della moda, al design o alle automobili: al di là della singola testa, il prodotto deve essere riconoscibile. Allo stesso modo, dalla bottega di Tiziano doveva uscire un oggetto d’arte fatto in una certa maniera e non in un’altra. La dinamica non è dissimile. Ciò che manca oggi piuttosto è l’idea che la formazione richiede tempo. E la possibilità per chi vale di mettersi alla prova».
FORCELLINO: «A parte Raffaello, che già a 15 anni fa cose importanti, gli altri arrivano più tardi: di Leonardo non conosciamo opere certe fino ai 23, 25 anni. Dunque per creare serve tempo. Non dare questa opportunità ai giovani è il limite di una società periferica come la nostra. Abbiamo insegnato questo al mondo e l’abbiamo dimenticato. È vero che i papi rinascimentali chiamavano a sé i nipoti per gestire il potere, ma nella macchina dello stato e nell’arte volevano i migliori. Non è certo il nepotismo odierno. Individuare il talento faceva parte della volontà di imporsi sull’esistente, di cambiarlo».
Una volta l’arte era capace di modificare la visione del mondo. E adesso?
FORCELLINO: «Il mercato dell’arte oggi è cinico e disfunzionale, ma sul lungo periodo i bluff non durano. Da ottimista continuo a pensare che per chi non è religioso l’arte sia la condensa dello spirito, un veicolo per il meglio di noi. Mai delegherei allo specialismo la cura di questa bellezza».
MAZZUCCO: «Ho amato dei quadri semplicemente guardandoli, per incanto, senza sapere che cosa rappresentavano o di che scuola erano».
Gli spettacoli multimediali o le grandi mostre, che spesso fanno storcere il naso agli addetti ai lavori, servono all’incanto?
MAZZUCCO: «Devi fare entrare le persone in un tempio a cielo aperto e guidarle una volta che sono entrate. Penso ad esempio a quei particolari delle opere che sono visibili solo a Dio: il pittore che ha disegnato un dettaglio in un affresco a venti metri da terra poteva non farlo, eppure lo ha fatto. Per sé, per l’arte, per rispetto della bellezza. Oggi però, grazie alle riprese, alle fotografie, alla multimedialità, vediamo ciò che non è mai stato visto, e lo possiamo vedere tutti. È una grande opportunità».
FORCELLINO: «Fare una cosa al meglio perché è il tuo modo di essere al mondo: questa è la vera lezione degli artisti. Noi italiani abbiamo la responsabilità di tutela di un patrimonio senza uguali e solo coltivare l’amore di massa per l’arte è la garanzia che sarà curato. Un patrimonio amato è un patrimonio difeso: un patrimonio non conosciuto è esposto a tutto».