Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2018
L’arte di scolpire a colori
Questa rassegna, di alto profilo scientifico e pionieristica almeno per la Francia rispetto al tema affrontato, ma allo stesso tempo davvero spettacolare per l’originalità e la qualità dei pezzi presentati, si pone nella migliore tradizione del d’Orsay, un museo popolare, dai grandi numeri, che però non ha mai avuto alcuna riserva nell’ offrire ad un pubblico vasto e internazionale proposte espositive sofisticate, ma allo stesso assai intriganti, come questa. Bisogna dar atto al curatore Éduard Papet di aver saputo organizzare il percorso della mostra ricca di centododici opere della più svariata provenienza, tra cui un nucleo molto consistente appartiene alle collezioni del museo stesso, e impostare il relativo catalogo con una invidiabile chiarezza, ma senza togliere nulla all’ approfondimento. L’argomento trattato, tra i più affascinanti, è quello della controversa rinascita nel corso della seconda metà dell’Ottocento della scultura policroma, praticata nell’antichità e nel Medioevo, ma progressivamente abbandonata a partire dal Rinascimento, quando ancora era stata in auge, per l’ostilità della cultura ufficiale, accademica. Prevaleva la convinzione che a questa nobile arte, determinata soprattutto dalla sua vocazione civile e monumentale, si confacesse la sola nobiltà del marmo bianco statuario di Carrara e del bronzo animato da sapienti patinature. Così il colore venne relegato a certe forme di statuaria popolare e religiosa. Mentre gli scultori potevano rimanere contrariati, tanto da abbondonare il proprio lavoro, quando si imbattevano nel corso dell’esecuzione in vene o altri difetti che compromettevano il candore di una materia consacrata, alla fine del Settecento da Winckelmann, come la caratteristica imprescindibile della bellezza morale delle sculture antiche ora riproposte a modello.
Si deve a due protatonisti del dibattito artistico e delle scoperte archeologiche nei primi decenni dell’Ottocento, Quatremère de Quincy e Jacques Ignace Hittorf, la rivelazione che l’architettura e la statuaria greca, sinora dominate nella percezione collettiva dalla dittatura del bianco, erano state in realtà a colori. Il primo già nel 1815, nella sua fortunata opera dedicata a Le Jupiter Olympien, rivelò gli incanti cromatici della scultura crisoelefantina, che assemblava oro ed avorio, investigando i procedimenti usati da Fidia per realizzare i suoi mitici colossi perduti, come l’Athena Parthénos e il Giove Olimpico. Mentre Hittorf, e poi coloro che poterono finalmente avventurarsi in Grecia dopo la sua indipendenza dall’Impero Ottomano, scoprirono che anche le architetture dei grandi templi, poi scialbate dal tempo, erano state in origine colorate. Ma se la policromia era ormai riconosciuta come una caratteristica della scultura e dell’architettura greche, continuava a non essere accettata per la scultura moderna anche per l’ostilità degli stessi artisti che la considervano una soluzione volgare e inadatta a un’arte ancora legata più alla resa dell’ideale che alla rappresentazione della realtà fisica. Questo nonostante che Canova, che era stato celebrato e continuava in parte ad essere considerato il più grande scultore di tutti i tempi, avesse tentato con procedimenti diversi, personalissimi e di cui non volle mai rivelare il segreto, di colorire leggermente le sue statue proprio per smorzare il freddo nitore del marmo e raggiungere, rappresentando il corpo femminile, quello che chiamava l’effetto di “vera carne”. Bisogna considerare poi l’inserimento, in alcuni casi – come quello della Maddalena penitente o dell’Ebe - di dettagli, come la croce, l’anfora, la collana, in bronzo dorato a dare ancora più l’ effetto della statua policroma.
Le polemiche che avevano investito Canova, facendolo in parte desistere da questi esperimenti, si rinnovarono quando Cordier, che è considerato il pioniere della policromia, cominciò a presentare dopo i viaggi in Algeria (1856) e in Grecia (1858) i suoi busti di tipi orientali, ma anche quello dell’imperatrice Eugenia, realizzati assemblando marmi colorati, alabastro e metalli, secondo quella pratica destinata a grande fortuna della policromia naturale, contrapposta a quella cosiddetta artificiale, per cui il marmo, il gesso e l’avorio venivano colorati per dare quasi l’illusione della vita, in un una continua rivisitazione del mito di Pigmalione, e come è avvenuto in una dimensione, che non appartiene più all’arte ma alla figurazione popolare, con le statue di cera riproducenti i personaggi famosi della celebre galleria di Madame Tussaud, aperta nel 1835, e del museo Grevin, inaugurato nel 1882. Nonostante la condanna della critica i sontuosi busti neobarocchi di Cordier, del nostro Marochetti e di altri riscossero un grande favore perché si ambientavano molto bene negli interni lussuosi del Secondo Impero. La scultura policroma poté realizzare in questo clima diventato favorevole le sue ambizioni monumentali, come nella gigantesca Athena Parthénos creata da Simart per il salone della musica del castello di Dampierre, dove la sua impressionante mole in marmo, avorio, bronzo argentato e dorato, fa ancora la sua figura davanti al magnifico murale di Ingres dedicato a L’età dell’oro. Ma, presentata all’Esposizione Universale di Parigi del 1855, era stata denigrata come «une statue froide, incolore, idiote et boiteuse».
Ma, nonostante le resistenze della critica ufficiale, la scultura policroma che faceva rivivere il sogno greco troverà uno straordinario interprete nel più affermato pittore di quegli anni Gérôme che, scultore autodidatta, si rifece ad una pratica diffusa a Tanagra, la città della Beozia dove erano state riscoperte nel 1870 le le celebri statuette funerarie colorate. Una simile a queste compare nel magnifico busto di marmo dipinto, con uno straordinario effetto realistico, della divina Sarah Bernhardt. Altrimenti Gérôme ha saputo davvero animare, come un moderno Pigmalione, provocanti nudità femminili ispirate alla mitologia. La rinascita della policromia non fu limitata al recupero dell’antichità, ma, come dimostra la diversità delle opere in mostra, ha coinvolto i soggetti e le teniche più disparate. Un posto notevole l’ha occupato la nostalgia del Medioevo che trovò la sua manifestazione più eclatante nel restauro-rifacimento, secondo i dettami di Viollet-le-Duc della Sainte-Chapelle, concepita come un immenso scrigno formato da decorazioni architettoniche e scultoree coloratissime. In questa dimensione fiabesca si inserisce anche il revival rinascimentale delle ceramiche variopinte alla moda di Della Robbia e di Bernard Palissy. Il culto e la fama allora alle stelle di questo artefice leggendario e della sua tecnica misteriosa sono documentati dalla spettacolare presenza della sua monumentale effige in ceramica smaltata, alta più di due metri, un vero prodigio. Certo che il salto è notevole rispetto ai percorsi della scultura policroma più sperimentale che si è confrontata con i soggetti contemporanei, raggiungendo impressionanti effetti illusionistici nelle figure in cera. Tra queste occupa un posto particolare una delle statue più belle e sorprendenti di tutti i tempi la Piccola danzatrice di quattordici anni esposta da Degas all’Esposizione degli Impressionisti nel 1881. Non è presente la fragilissima versione originale della National Gallery di Washington, rivestita di un corsetto e e del gonnellino in mussolina, ma la tarda replica novecentesca in bronzo del d’Orsay. Ma poi la straordinaria conversione sperimentale di questo genere di scultura è rappresentata verso la fine del secolo dai capolavori simbolisti di Gauguin, come il bassorilievo in legno colorato Soyez mystérieuse e l’idolo in gres Oviri, e dalle creazioni, quasi animistiche, di Georges Lacombe il “nabi scultore”, che dava corpo ai suoi incubi primordiali all’ alba inquieta del XX secolo.