Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2018
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Biografia di Alois Alzheimer
Alois Alzheimer nasce nel 1864. Nel 1883 comincia a studiare medicina a Berlino, nell’università più all’avanguardia per le ricerche sul vivente. Alzheimer crede da subito, e fermamente, che il «come» e il «dove» delle malattie mentali vada cercato nel cervello. Terminati gli studi, lavora nelle cliniche per malattie psichiatriche a Francoforte e Monaco, per divenire infine ordinario di psichiatria e neurologia all’Università di Breslavia. A Francoforte la paziente Auguste Deter, ricoverata nel 1901, attira la sua attenzione. Auguste Deter muore nel 1906 a 56 anni e Alzheimer riceve a Monaco il suo cervello fissato in formalina. La diagnosi clinica è quella di demenza senile, con perdita della memoria, disturbi del linguaggio, difficoltà percettive, allucinazioni. Troppo giovane, secondo Alzheimer, per la diagnosi di demenza senile, una malattia che allora si pensava causata da alterazioni vascolari del cervello tipiche di un’età più avanzata.
Il 3 novembre 1906, a un’assemblea degli psichiatri tedeschi a Tubinga, Alzheimer riferisce, nell’indifferenza dei colleghi (tra cui il giovane Carl Gustav Jung), di aver trovato il cervello di Auguste Deter invaso da grovigli, cioè fibrille dentro i neuroni. Inoltre dice di aver riscontrato accumuli di un particolare materiale tra i neuroni della corteccia e parla di «degenerazione neurofibrillare», un male mai descritto prima. Mezzo secolo dopo, grazie ai microscopi elettronici, s’identificano gli accumuli come «placche amiloidi». Nell’unico lavoro dettagliato pubblicato nel 1911, su raccomandazione di Emil Kraepelin, il suo primario, si parla per la prima volta di «malattia di Alzheimer». Alzheimer ammonisce di non attribuire direttamente la demenza senile o presenile a placche nel cervello. Aveva sezionato i cervelli di dementi senili trovando pochissime placche e quindi non c’era una correlazione tra l’estensione delle placche e la gravità della demenza.
Alzheimer muore nel dicembre del 1915. Allora le persone anziane erano relativamente poco numerose e si distingueva tra demenza senile e presenile, anche se Alzheimer finì per rifiutare tale distinzione. Oggi gli anziani sono molti e sappiamo che la demenza, con variazioni individuali e stadi intermedi, è una sola. I depositi amiloidi descritti nei lavori del 1906 e del 1911 non erano la causa della malattia. Il 70% dei cervelli di persone anziane con mente sana presentano fibrille nei neuroni dell’ippocampo. Come si spiega che il cervello funziona bene anche con placche e neurofibrille? A questa domanda non c’è ancora risposta.
Arnaldo Benini descrive in modo dettagliato la storia e lo stato attuale degli studi sull’enigma «Alzheimer». È la malattia della quale oggi, soprattutto a una certa età, si ha più paura. È temuta perché s’ignora chi colpisce, non si sa come evitarla, non se ne conosce la cura. Il timore è tale che si tende a confondere gli impedimenti cognitivi normali a una certa età con il sopravvenire della demenza. Ora è vero che più l’età avanza, più aumenta la probabilità del male, ma va ricordato che la metà degli ottantacinquenni ne è immune.
Il saggio non racconta soltanto le scoperte di Alzheimer e gli studi successivi. È anche una mirabile esposizione dei problemi epistemologici e metodologici che incontriamo nello studio di una malattia e nella ricerca delle cure. Giustamente il sottotitolo de La mente fragile parla di «enigma».
Noam Chomsky dice che la scienza permette di trasformare i misteri in problemi. La demenza senile non è un mistero, perché siamo stati capaci di escludere molte ipotesi. Non si tratta neppure di un problema. Non conosciamo infatti le domande da fare alla natura per trovare la soluzione, nell’ottica che la scienza non è altro che la capacità di porre le giuste domande alla natura che ci fornisce le risposte sotto forma di dati sperimentali. Lo studio della demenza senile è oggi a metà strada, per l’appunto un enigma. Non restano che i provvedimenti palliativi, di cui ci parla Benini.
Il libro è una grande lezione sui confini tra quello che si sa (scienza), quello che si sa di non sapere (problema) e quello che non si sa di non sapere (enigma). Sono confini su cui si deve vigilare con attenzione estrema. Come membro della «Commissione per l’Etica della ricerca e la Bioetica»del CNR, ho imparato che tale attenzione è cruciale per condurre ricerche rigorose sui nuovi farmaci. Tutto ciò che è molto temuto innesca speranze, che vanno separate dalle illusioni e, purtroppo, anche dagli inganni.
Una misura delle speranze e delle illusioni è data dall’andamento dei titoli delle case farmaceutiche che stanno cercando una cura della demenza senile, o almeno un freno al progredire del male. Un’azienda somministra il farmaco BAN2401 su 856 pazienti e rilascia dichiarazioni sul confronto tra chi assume il farmaco e chi prende un placebo, cioè una cura finta. I risultati per ora non sono definitivi. Ogni volta che dall’azienda esce un comunicato, il titolo azionario sale o scende considerevolmente. Se si controllano sul sito statunitense «ClinicalTrials» le relazioni su questo farmaco, si scopre che le prove non sono terminate. A tutt’oggi, abbiamo a che fare con «scommesse», comprensibili in borsa ma da non confondersi con le probabilità di aver trovato una cura. Grandi farmaceutiche hanno nel frattempo rinunciato alle ricerche sulla demenza senile giudicandole non convenienti in termini di costi (certi)/benefici (incerti).
Contrariamente a quello che molti vorrebbero farci credere, i progressi della scienza e delle tecnologie prolungano quasi esclusivamente la vecchiaia incrementando la diffusione delle demenze senili. L’insegnamento che si ricava da questo saggio, che andrebbe letto da tutti come lezione di metodo e razionalità, è che non dobbiamo preoccuparci troppo della demenza senile per evitare di soffrire due volte: per il timore preventivo e poi per il male, se capita.
Darwin ci ha insegnato che le variazioni degli individui e il turnover delle generazioni sono indispensabili per gli adattamenti degli organismi viventi alle mutevoli condizioni degli ambienti di vita. Oggi gli ambienti intorno a noi mutano più rapidamente che in passato e il cambiamento sta diventando sempre più accelerato. Se riuscissimo a inventare farmaci in grado di farci sopravvivere (vecchi) per secoli, saremmo ben adattati al mondo soltanto da giovani. Poi forse seguirebbe un prolungato ed estenuante disagio. Con le parole finali di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, potremmo dire che le stirpi condannate a più di cent’anni «non avranno una seconda opportunità sulla terra»