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 2018  agosto 26 Domenica calendario

Salvifiche banche centrali

Nell’agosto del 2007, le difficoltà di due società fuori bilancio della banca francese Bnp Paribas furono il primo sintomo, allora largamente incompreso, della tempesta che avrebbe poi creato la crisi finanziaria globale e la Grande Recessione. Una delle prime telefonate dell’allora presidente della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, per cercare di capire cosa stesse succedendo, fu con Francesco Papadia, il capo delle operazioni di mercato all’istituto di Francoforte. Ne seguiranno molte altre. Papadia, un ex alto dirigente della Banca d’Italia, alla Bce dalla sua fondazione, viene descritto da colleghi e operatori di mercato, per i quali rappresentava il principale interlocutore, come un tipo capace di mantenere la calma nei frangenti più tesi e complicati. Le dimensioni della trading room della Bce, seppure agisca di concerto con le banche centrali nazionali dei Paesi che hanno adottato l’euro, fanno sorridere rispetto a quelle che avevano le grandi banche d’investimento, ma sono in grado di farsi sentire sui mercati ben al di là del proprio peso.
Negli anni delle due ondate della crisi, la prima concentrata negli Stati Uniti, la seconda nell’eurozona, la situazione ha spesso rischiato di finire fuori controllo e causare un meltdown del sistema finanziario internazionale: i mercati sono stati a più riprese paralizzati dalla paura e hanno smesso di funzionare. Alle banche centrali, che spesso hanno avuto la sensazione di esser lasciate sole a fare da diga contro la marea montante dell’instabilità, viene oggi riconosciuto di aver salvato il mondo da un disastro di proporzioni imprevedibili. E lo hanno fatto con azioni senza precedenti. Armata del senno di poi, esiste oggi una versione revisionista della crisi, sposata per esempio da Laurence Ball, economista della Johns Hopkins University, secondo cui le banche centrali non solo non avrebbero risolto la crisi, ma l’avrebbero invece aggravata: il peccato originale starebbe nella decisione (con l’acquiescenza della Federal Reserve) di lasciar fallire Lehman Brothers, con il proposito di sconfiggere l’azzardo morale.
Papadia (insieme al capo economista della Banca centrale finlandese Tuomas Välimäki), non sorprendentemente, data la posizione che ha ricoperto fino al 2012, racconta la crisi in modo più aderente alla versione più generalmente accettata. Spiega come ci si è arrivati e il modo in cui le banche centrali operavano prima della Grande Recessione. Racconta di un mondo in cui tutti i riferimenti in cui le banche centrali si erano mosse fino ad allora erano saltati. Descrive le misure che hanno intrapreso spingendosi al di là dei confini del central banking fino ad allora conosciuto: i tassi d’interesse a zero o addirittura, come nel caso della Bce, in territorio negativo; la forward guidance, cioè le indicazioni sulla politica monetaria futura; il “quantitative easing”, l’acquisto di titoli per espandere il bilancio della banca centrale una volta esaurito lo strumento dei tassi, un’azione alla quale la Bce arriverà con ritardo forse colpevole, certamente spiegabile con i condizionamenti “politici” in un’unione monetaria a 19.
L’analisi è molto lucida. Purtroppo la formazione di Papadia, un banchiere centrale della vecchia scuola, priva il lettore della rivelazione di una serie di episodi che ha vissuto in prima linea in altrettanti momenti cruciali della crisi. Persino il titolo, con la crisi declassata a “tempi turbolenti”, è un capolavoro di understatement.
Il libro contiene poi una terza parte sul futuro del central banking dopo gli avvenimenti dell’ultimo decennio. Certamente, gli strumenti non convenzionali introdotti in questi anni, come ha ricordato l’ex vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, nel lasciare l’incarico due mesi fa, sono ormai entrati permanentemente nell’arsenale da utilizzare in future crisi. Papadia individua alcune delle criticità fatte emergere dalla crisi nel vecchio modo di fare banca centrale, fra cui il dilemma fra la stabilità dei prezzi e la stabilità finanziaria, la mescolanza impropria fra politica monetaria e politica di bilancio e l’azzardo morale creato dagli interventi delle banche centrali. L’ex dirigente della Bce respinge soluzioni radicali e mostra un certo scetticismo su opzioni di recente voga, come le politiche macro-prudenziali. Suggerisce per esempio che, in ultima analisi, debba essere qualcun altro, forse il Parlamento, a specificare il mandato della banca centrale in caso di conflitto fra gli obiettivi. Ma anche che sia una maggioranza qualificata a decidere l’uso del bilancio della banca centrale, il che forse avrebbe ovviato ad alcuni dei contrasti scoppiati nel consiglio della Bce.
Più che dalle soluzioni tecniche, tuttavia, il futuro può dipendere dall’interazione con la politica e dalla capacità delle banche centrali di salvaguardare la propria indipendenza sotto l’attacco già iniziato negli Stati Uniti dell’era Trump.
Dell’impossibilità della banca centrale di mettersi al riparo dalla politica in situazioni estreme è testimone Panicos Demetriades, per due anni governatore a Cipro. Il suo diario della crisi è un racconto che si legge come un appassionante romanzo giallo, in cui si intrecciano le azioni di oligarchi russi, che hanno fatto dell’isola il loro “parco giochi”, della Chiesa ortodossa, di politici locali e di opachi studi legali. Ma è anche il dramma di un Paese fra i più piccoli dell’eurozona e che a un certo punto ha rischiato di far saltare l’unione monetaria quando improvvidamente è stato introdotto il bail-in anche per i depositi sotto i 100mila euro. Ed è il dramma personale di un economista che ha trascorso quasi tutta la carriera all’estero e alla fine deve tornarci sotto le pressioni della politica, ma anche dietro minacce all’incolumità sua e della sua famiglia. Traspare un po’ di amarezza per il ritardo, o forse l’impossibilità, della Bce di proteggerlo dalla tempesta. Demetriades ha sperimentato sulla sua pelle quella che definisce la più importante lezione della crisi di Cipro per il futuro dell’eurozona e certamente la più attuale: «Il populismo, se lasciato senza controllo, può danneggiare le fondamenta dell’unione monetaria in modo irreparabile».