Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2018
La storia di Tullio Campagnolo. Da una sconfitta una rivoluzione per la bicicletta
«Val più la pratica della grammatica», diceva il proverbio; e la carriera di Getulio Campagnolo, detto Tullio, ne è la conferma. Vicentino dell’Anconetta, era nato il 26 agosto (come oggi) del 1901, ed era un autentico genio della meccanica. Non un visionario, ma uno di quei personaggi che con un colpo d’occhio capiscono dove c’è un problema e lo risolvono. Tanto che un giorno, un bello spirito – fors’anche per scherzo, come si fa tra paesani – ebbe a paragonarlo a Leonardo da Vinci, nientemeno: «Eh, Leonardo!», bofonchiò Campagnolo, fingendosi risentito: «Mi so ’n povar’omo che lavora de dì e de note».
Chi l’ha conosciuto dice che teneva sempre in tasca un foglietto e un mozzicone di lapis per appuntare le idee. Inventore, nonché imprenditore e promotore di se stesso e della propria opera, Campagnolo aveva le mani d’oro. Era un homo faber autodidatta che, nel retrobottega del negozio di ferramenta ereditato dal padre, lavorò sempre «provando e riprovando», secondo l’aureo principio sperimentale promulgato dai padri della scienza, di cui probabilmente non aveva mai sentito parlare.
Fattivo e pragmatico, Campagnolo aveva anche una straordinaria capacità di avvicinare il prossimo, e fu sempre fedele a una sola regola: rispetta gli impegni e se prometti mantieni. Da ragazzo aveva frequentato la scuola di arti e mestieri, e poi, attratto dall’idea di guidare un locomotore, era entrato nelle ferrovie come aiuto macchinista. Ma era tornato in officina, accanto alla forgia e alla morsa. Perché la sua vocazione era quella dell’artefice.
È passato alla storia come il padre di una rivoluzione copernicana nel mondo del ciclismo, ma le sue invenzioni – e i brevetti – sono numerosi anche in altri campi della meccanica: dai cerchi in magnesio per le ruote delle moto e delle auto da corsa alla struttura portante del satellite Oso 6 lanciato in orbita dalla Nasa nel 1969.
Ai tempi di Binda, Guerra e Girardengo, cioè nell’epoca immediatamente successiva a quella dei cosiddetti «forzati della strada», quando i passi di montagna erano mulattiere che costringevano i ciclisti a mettere il piede a terra e spingere la bicicletta a mano, Campagnolo si era cimentato come corridore, e su qualche gara secondaria – non molte – era riuscito persino a mettere il proprio nome.
Durante il Gran Premio della Vittoria del 1927, è in fuga con altri tre sul Croce d’Aune, nelle Alpi Bellunesi. Il valico è posto a quota 1.020. Quando la salita impenna, è necessario inserire un rapporto che permetta un giro di gambe più agile. Ma per farlo bisogna scendere di bicicletta, girare la ruota posteriore sul cui mozzo sono montati i denti dei due pignoni che regolano la lunghezza della pedalata; e poi, una volta spostata la catena, ripartire.
È certamente più facile a dirsi che a farsi, perché è l’11 di novembre e la pioggia è diventata neve. Campagnolo armeggia con le dita intirizzite attorno ai dadi a farfalla che fissano il cerchione alla forcella del telaio, ma non riesce a far forza. Si rimette in sella, scuotendo la testa. Ogni speranza è ormai svanita. Lungo la discesa, nell’acquivento, tira il fiato e borbotta tra sé: «Gh’è da cambiar qualcossa de drio». Il metodo chiamato “flip flop” resisterà ancora per anni, ma qualcosa – appunto – sta per succedere.
L’8 febbraio 1930 presenta il suo primo brevetto. È una leva zigrinata che permette lo sgancio rapido della ruota. Campagnolo l’ha collaudata a lungo e si impegna per farla conoscere a corridori e meccanici. Prende a prestito tremila lire per pagarsi il vitto e l’alloggio, e comincia a seguire le corse in ogni parte d’Italia. Porta con sé un prototipo avvolto nel fazzoletto e convince i responsabili delle maggiori case – Atala, Bianchi, Legnano e Gloria – ad adottarlo. È l’inizio di una faticosa e trionfale avventura narrata in bello stile da Paolo Facchinetti e Guido P. Rubino in un librone illustrato - Campagnolo. La storia che ha cambiato la bicicletta -, messo insieme da Gino Cervi con la solita perizia per la Bolis Edizioni.
Nel 1933 il giovane Tullio fonda la “Campagnolo s.r.l.”, con sede nel retrobottega della ferramenta sopracitata. Solo nel 1940 sarà in grado di assumere un paio di dipendenti. Per il momento gioca una carta che spera vincente: la qualità del prodotto. I metalli da lui usati e lavorati a mano sono i più costosi, ma considera le perdite un investimento per il futuro.
Per affermarsi nel campo delle corse non basta vendere: bisogna continuare a farlo, ed è necessario che i corridori vincano. La concorrenza è agguerrita e l’attenzione dei costruttori è ormai rivolta al miglioramento del mezzo. Le gare non sono più di 400 o 500 chilometri come ai tempi eroici, e i distacchi non si misurano più con la sveglia. Oltre alle gambe, contano i dettagli. I giornalisti al seguito ricorrono a un ossimoro involontario e parlano spesso di noie...meccaniche. Ma sono talora proprio questi inconvenienti a decidere il risultato di una gara.
I costruttori francesi inventano il “Simplex” nel ’24; lo svizzero Oscar Egg presenta il suo “Osgear” nel ’28; e i fratelli Nieddu il loro “Vittoria Margherita”, nel 1930. Ma tra deragliatori, rocchetti, cremagliere, cavi e forcelline, il vecchio flip flop inventato nel 1890 resiste: bisogna sì girare la ruota, ma ormai, con lo sgancio rapido, non è detto che sia meno conveniente – cioè, meno veloce e alla mano – degli altri modelli.
Nelle classiche, ai Mondiali e al Giro d’Italia, il cambio di velocità è in uso da tempo, ma non al Tour. Il patron Henri Desgrange è uno strenuo puritano che ha sempre anteposto il muscolo alla meccanica, e solo nel 1921 ammette la ruota libera in luogo del pignone fisso. Quando, nel 1937, acconsente all’uso del deragliatore, anche Campagnolo parte per la Grande Boucle. Osserva, s’informa e prende appunti. Ha già in mente il cambio a bacchetta, detto “Campagnolo Corsa”, che presenterà nel 1946. È un sistema di due leve posizionate sul pendente posteriore che evita al ciclista di mettere il piede a terra. Un aggeggio semplice ma difficile da usare. Manca ancora qualcosa.
Negli anni della guerra nessuno pensa più a correre e Campagnolo ripara le biciclette dei compaesani nella sua bottega. Rimugina sul sistema a parallelogrammo che ha visto sulle bici dei francesi e nel 1949, dopo che Coppi ha vinto Giro e Tour con il “Simplex”, lo avvicina e gli propone di correre con un nuovo modello, in cambio di tanti soldi. Si chiama “Gran Sport” ed è un gioiello che trasformerà la storia del ciclismo.
Già anziano, durante una cena rischia di ferirsi nell’aprire una bottiglia di vino. Immediatamente risolve il problema. Cava dal taschino il lapis e disegna un cavatappi che è ora in esposizione permanente al Museum of Modern Art di New York. Gianni Brera gli dedica una pagina degna di una laude nel finale di un libro – pubblicato dal figlio di Campagnolo, Valentino, e mai commercializzato – che si intitola Il gigante e la lima. In ricordo dei due amici – antichi sodali di caccia, di corse e mangiate – leviamo il bicchiere in un grato cin-cin.