La Lettura, 26 agosto 2018
Oscar Wilde, l’invenzione della rockstar
Wilde scrittore-celebrity, più celebrity che scrittore, talento sprecato e immolato sull’altare delle mode del momento, autore di opere effimere, Wilde il cui unico capolavoro fu la vita spericolata (finita malissimo) e il cui unico personaggio memorabile fu Wilde stesso, autore la cui trascurabile opera omnia è invecchiata malissimo, come il ritratto di Dorian Gray rinchiuso in soffitta, Wilde «decadentista» dimenticato dai critici e perfino dal suo college, che rifiutò inorridito di conservarne l’archivio, come se quelle carte potessero trasmettere un’infezione.
Sant’Oscar: patrono, martire e icona del Gay pride ante litteram, pioniere dei diritti civili il cui capolavoro è il disperato De profundis scritto in carcere, e la cui università, Oxford, non soltanto ha accettato di conservarne l’archivio ma ha trasformato i suoi appartamenti di studente in una sorta di museo-santuario.
Due visioni estreme di Oscar Wilde, per decenni di riferimento: la prima, in quelli successivi alla morte in povertà assoluta a Parigi, nel 1900 – «Muoio al di sopra delle mie possibilità», l’ultima battuta – e la seconda nel più recente ventennio. La prima visione? Difficile non imputarla a una certa malcelata omofobia. La seconda visione è problematica. Prima di tutto perché del Wilde scrittore glorifica le opere più deboli, La ballata del carcere di Reading e De profundis. E poi perché Wilde è un santo protettore dei gay dall’aureola traballante tra la passione per poverissimi ragazzi di vita, la comprensibile riluttanza a fare quello che oggi chiameremmo coming out o a difendere la causa dei gay e non sé stesso.
Un antidoto provvidenziale a queste opposte valutazioni è il nuovo travolgente allestimento de L’importanza di chiamarsi Ernesto in queste settimane al Vaudeville Theatre di Londra. L’ultima pièce di Wilde, capolavoro della tetralogia del quadriennio magico 1892-95 (le altre sono Il ventaglio di Lady Windermere, Una donna senza importanza e Un marito ideale), risplende dell’intelligenza del suo autore, suscita frequenti boati di risate tra il pubblico e si guadagna uragani di applausi, un successo tale che in ottobre lo spettacolo verrà filmato e trasmesso in diretta nei cinema del Regno Unito e dell’Irlanda di Wilde.
Michael Fentiman, il regista, mantiene l’ambientazione d’epoca ma aggiunge un tocco irriverente che fa quello che l’autore nel 1895 non avrebbe potuto: rende esplicita l’omosessualità dei personaggi maschili, gettando un’ombra birichina sui rapporti tra i gentleman vittoriani e i loro maggiordomi, e prevedendo un inevitabile lavender marriage («matrimonio di copertura») per la povera Cecily. Irriverenza verso i costumi vittoriani a parte, Fentiman fa una scelta decisiva: la velocità. Il ritmo della messa in scena è travolgente. Wilde qui ci appare come il padre nobile delle commedie hollywoodiane anni Trenta e Quaranta del secolo successivo. Wilde che ne L’importanza di chiamarsi Ernesto scarta tutti i cliché sapientemente usati nelle tre commedie precedenti – a parte l’esilarante agnizione finale: attenti a dimenticare bagagli a Victoria Station, allora come oggi – per lasciarci in pace a gustare la commedia degli equivoci. Wilde estende per tre atti – erano quattro, l’impresario lo convinse a tagliare – il finale a rotta di collo del secondo atto delle Nozze di Figaro mozartiane. Gli attori seguono Fentiman, in particolare Sophie Thompson – sorella meno famosa di Emma, non meno brava – che inventa una Lady Bracknell che, viene da pensare, resterà di riferimento.
Il pubblico applaude e conferma quello che scrive, in un saggio appena uscito per la Oxford University Press, Making Oscar Wilde, la professoressa dell’ateneo inglese Michèle Mendelssohn. Mendelssohn ha trovato con un lavoro certosino durato un decennio una gran quantità di documenti inediti sul tour americano (1882-83) che rese il neolaureato Wilde, bon vivant autore di una commedia sui nichilisti russi che nessuno voleva, una rockstar. La professoressa ricorda come Wilde partì per portare agli americani non tanto il suo genio – regolarmente dichiarato alla dogana, come da celebre, fulminante battuta – quanto un esemplare di intellettuale estetizzante inglese (o meglio irlandese) da far ammirare o deridere nei teatri del Nuovo Continente.
E fu in America, su quei palchi, in quelle biblioteche, sui divani degli alberghi nei quali accoglieva gli intervistatori, che elaborò la versione definitiva dell’Oscar Wilde che avrebbe riportato a Londra. Mendelssohn analizza le influenze sorprendenti – i minstrel show in cui attori bianchi recitavano truccati da neri – e le scelte geniali come quella di farsi fotografare da Napoleon Sarony, il Richard Avedon della sua epoca, fotografo delle celebrity al quale dobbiamo quello che resta il ritratto più bello dello scrittore, giacca di velluto e calze di seta e babbucce e capelli fluenti, sguardo languido e appeal pansessuale da Mick Jagger, o David Bowie, ante litteram. Wilde che in America studia da Oscar Wilde e diventa sé stesso. L’America che lo rende maestro della gestione di quelle che oggi chiameremmo pubbliche relazioni, primo scrittore-celebrity a incarnare anche fisicamente un modello da seguire – Dickens aveva folle da stadio e per dare conferenze si giocò la salute, ma per Wilde scrivevano canzoni popolari, e le donne impazzivano per lui. La pièce in scena a Londra ci ricorda il motivo principale della sua grandezza: Wilde maestro assoluto della commedia, ma anche la leggerezza – e dunque la fragilità – del suo genio.