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 2018  agosto 26 Domenica calendario

Il ritorno del puritanesimo

Che cosa sta accadendo? Quanto è davvero libera l’arte al tempo di internet? Quanto l’idea di una democrazia diretta e un potere politico spesso privo di cultura, possono condizionare il sistema dell’arte? Davvero il Metropolitan si può far intimorire da una signora che chiede la rimozione del dipinto di Balthus perché «incita alla pedofilia»? E forse gli Staatliche Museen di Berlino sposteranno, come qualcuno ha richiesto, il dipinto di Caravaggio Amor vincit omnia soltanto perché Cupido mostra il sesso? Per ora, i musei difendono le opere e nulla accadrà. Ma com’è possibile, invece, che a Londra la società dei trasporti pubblici abbia censurato i manifesti della mostra di Egon Schiele perché contenevano dipinti nei quali sono rappresentati nudi integrali?

Senza alcun dubbio, il caso Weinstein e il conseguente movimento #MeToo hanno inciso più di quanto si possa immaginare sulle percezioni del corpo della donna e sta condizionando inevitabilmente anche i linguaggi dell’arte. Chi ne ha fatto le spese, qualche giorno fa, è il fotografo giapponese Nobuyoshi Araki, attaccato da un gruppo di donne in Polonia dopo che la sua modella lo ha accusato di «bullismo emotivo». Va segnalato che nella fotografia di moda (negli Stati Uniti) i fotografi vivono in un clima di costante tensione e ora hanno un rigoroso codice di comportamento che devono sottoscrivere: non si possono toccare le modelle, non si può pubblicare il seno, le modelle non possono restare sole col fotografo, devono avere più di 18 anni, niente alcol sul set... Vi ricordate il fotografo di Close Up, ispirato a David Bailey cantore della Londra degli anni Settanta? Ne lui né Helmut Newton, con queste regole, avrebbero fatto uno scatto. Anche la fotografia, dunque, si sta trasformando.
Cambiano le percezioni sul senso del pudore, cambiano i comportamenti collettivi e sembra affermarsi un nuovo puritanesimo. Ritorno a polverosi concetti morali? Una cosa è sicura: il potere del politically correct e degli algoritmi sembra stia superando il buon senso: nel 2016 Frederic Durand-Baissas, un professore parigino, si è visto censurare da Facebook il celebre dipinto L’origine du monde messo come suo profilo. Iconoclastia? Restaurazione? Riflusso? E poi, dov’è finita l’accettazione e la tolleranza per i messaggi anche scomodi dell’arte che affronta i territori dell’impegno civile? Dov’è finita la lezione dell’Illuminismo? Si sta forse insinuando la sottile (ma prepotente) arte di censurare l’arte?

Partiamo da qui. Partiamo dal fatto più recente: dal 5 al 14 ottobre, il golfo di Trieste sarà invaso da migliaia di barche per la cinquantesima edizione della Barcolana, la regata più grande del mondo. Per realizzare il manifesto di questa speciale edizione, su idea del direttore creativo di Illy, Carlo Bach, è stata coinvolta Marina Abramovic, grande artista di origine serbe, celebre per le sue performance in cui mette in gioco, anche drammaticamente, sé stessa. Per Abramovic il corpo è linguaggio. Così anche per quest’ultima opera in forma di manifesto si è fatta ritrarre, citando i manifesti del Costruttivismo russo, mentre impugna una bandiera su cui appare uno slogan semplice e diretto: We are all in the same boat.
Ma le parole «Siamo tutti sulla stessa barca» che celebrano un mondo condiviso senza frontiere, non sono piaciute all’amministrazione leghista di Trieste che, attraverso la voce del suo vicesindaco Paolo Polidori, dichiara guerra ad Abramovic: «Quel manifesto deve sparire. Proibito a Trieste e nel resto del mondo. O sparisce quell’orrore, o salta la convenzione con il Comune». E ancora: «È un manifesto diffuso proprio mentre il ministro degli Interni è impegnato a ripulire il Mediterraneo. Inaccettabile, una propaganda immorale. Inutile tentare di conferire significati culturali a uno slogan sovietico e a un’immagine da Corea del Nord».
Lo scontro appare durissimo, ma col passare del tempo, dopo una significativa reazione dei media, in Comune a Trieste ci si rende conto che tutto questo si sta rivelando un boomerang. Così, almeno per ora, la polemica sembra ricomposta. Su tutto, resta comunque la preoccupante ingerenza della politica, là dove l’arte si fa messaggio di impegno civile.
Ma ci sono altri tipi di ingerenze, altrettanto indicative di un cambiamento in corso: in un momento in cui la sensibilità verso gli animali diventa sempre più attenta, il video Dogs That Can Not Touch Each Other degli artisti Sun Yuan e Peng Yu, presentato lo scorso anno al Guggenheim, ha urtato la sensibilità di alcuni visitatori. Vi si vedevano quattro coppie di cani che corrono l’una verso l’altra, incatenate a un tapis roulant. Subito parte una petizione online firmata da oltre 800 mila persone. Il Guggenheim decide per l’auto-censura e il video è rimosso.
Ancora una volta, dunque, il tema di riflessione è il confine entro il quale l’artista può o deve muoversi (ma ci deve essere un confine?) e poi il momento storico, il contesto culturale (lo spazio istituzionale o privato) e infine, la qualità del messaggio.

Il tema religioso, insieme al sesso, resta il più delicato: come nel caso di Andres Serrano e del suo Piss Christ (la rappresentazione di un crocifisso immerso nell’urina). L’opera, giudicata blasfema, è ancora oggi fonte di polemiche. Ma c’è anche il tema razziale. Come nel caso di Dana Schutz, alla Biennale del Whitney: lei, pittrice americana (bianca) è accusata dalla comunità di colore di essersi appropriata di una icona nera. La sua opera Open Casket è un dipinto in cui si raffigura il corpo di Emmett Till, un giovane afro-americano assassinato da due bianchi nel 1955. Così, accade un fatto paradossale: un altro artista (afroamericano), Parker Bright, si mette provocatoriamente di fronte all’opera, oscurando parzialmente la sua visione. Sul retro della sua camicia le parole: Black Death Spectacle.
Ad analizzare la complessità di questa deriva, è appena uscito in Germania un interessante pamphlet di Hanno Rauterberg dal titolo esplicito: Wie frei ist die Kunst?, «Quanto è libera l’arte?». Ma è il sottotitolo a delineare lo scenario: «La nuova lotta culturale e la crisi del liberalismo». Perché proprio di battaglia culturale si tratta. Hanno Rauterberg affronta la questione della libertà dell’arte collocandola nel contesto attuale, affrontando alcuni casi emblematici (da Balthus a «Charlie Hebdo») dai quali emerge, di fatto, che l’arte libera non lo è affatto, ma è il frutto di campi di forza.
Il critico di «Die Zeit» sostiene anche un punto importante: «Non pochi direttori di musei sono impressionati, se non spaventati». E ricorda le parole di Anne Pasternak, direttore del Museo di Brooklyn, che si dichiara avvolta da una dannosa «mentalità web» che potrebbe portare a «restringere la diversità dei lavori nelle nostre istituzioni, per paura delle conseguenze».

In Italia resta nella memoria un caso emblematico, quello del Museion di Bolzano, dieci anni fa. La direttrice di allora, la svizzera Corinne Diserens aveva issato (provocatoriamente?) proprio all’entrata del museo un’opera dell’artista tedesco Martin Kippenberger: una rana crocefissa che teneva tra le mani un boccale di birra e un uovo. Fu uno scandalo. Con tanto di sit-in, scioperi della fame, il vescovo sulle barricate e addirittura una lettera di Papa Benedetto XVI. Dopo le secche prese di posizione dei politici, il consiglio del museo, con un voto di 6 contro 3, decise di non rimuovere l’opera. La libertà dell’arte era salva, ma Luis Durnwalder, presidente della provincia, con la scusa dello sforamento del budget, tra penale da pagare e consenso elettorale, decise per la seconda: la direttrice fu rimossa.
Gianfranco Maraniello, direttore del Mart di Rovereto, riflette sul ruolo dei musei: «L’arte – dice a “la Lettura” – è libertà assoluta dell’artista, ma non lo possono essere tutte le manifestazioni delle sue espressioni. I musei, ad esempio, sono luoghi istituzionali, esercitano diverse responsabilità pubbliche e le scelte di opportunità e di programmazione non vanno confuse con la censura. Nel 2008 ho curato la Biennale di Shanghai e ho accettato un codice deontologico. In Italia non esiste nulla di simile, ma si può assistere a un variegato clima intimidatorio che prevalentemente passa per quel territorio licenzioso e senza censura che è la rete, con il conseguente terrore della politica di perdere consenso o affrontare polemiche che talvolta sarebbero invece salutari». Arturo Galansino, direttore di Palazzo Strozzi a Firenze (dove si terrà dal 21 settembre una grande retrospettiva proprio di Marina Abramovic) ricorda il potere dell’arte: «A giudicare da alcune virulente reazioni “dal basso” e dai recenti casi di censura “dall’alto”, è evidente che l’opera di Marina Abramovic riesca ancora a scuotere le coscienze. Sembra paradossale, ma dopo oltre 40 anni, anche le prime opere di Marina sono soggette a sensibilità di vario tipo e censura. L’iconica performance Imponderabilia, ad esempio, realizzata a Bologna nel 1977 (le persone dovevano attraversare una porta costrette a sfiorare i corpi nudi di Ulay e di Marina Abramovic, ndr), venne all’epoca interrotta dalla polizia, mentre oggi viene censurata dalle immagini dei social media perché considerata impropria. Un certo uso del corpo nell’arte è forse tollerato meno oggi, nella nostra epoca globale, rispetto al passato. Per vedere il fenomeno in positivo, mi pare sia un sintomo della vitalità e attualità del linguaggio di Marina e la stessa artista ne può essere orgogliosa».