La Lettura, 26 agosto 2018
Cronaca della fine dell’Europa
Una cosa è chiara: uscire dall’euro sarebbe un disastro, per qualsiasi Paese, Italia in testa. Un’altra cosa, però, è chiara, anche se quasi sempre la si spazza sotto il tappeto: la moneta unica ha fallito la missione di unire l’Europa. Il risultato di queste due evidenze è che l’Unione Europea è in una gabbia nella quale probabilmente resterà rinchiusa per anni… se le cose andranno bene: perché potrebbe succedere di peggio. E che avrà un ruolo passivo – se addirittura non diventerà terreno di conquista – nello stabilire un nuovo ordine internazionale in questa era di competizione tra grandi potenze. Riassunto: l’europeismo degli scorsi tre decenni, dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989, è stato un flop storico le cui conseguenze non sono facili da immaginare.
Affrontare la crisi dell’Europa – profonda e conclamata – significa cercare di pensare out of the box, fuori dagli schemi che da anni costringono la conversazione politica su binari obbligati, con emarginazione del dissenso. Schemi che oggi risultano non solo datati, ma soprattutto sconfitti dall’ondata di nazionalismi e di populismi irrazionali che attraversano il Vecchio Continente. Le elezioni per il Parlamento europeo dell’anno prossimo saranno un passaggio cruciale nella ridefinizione del dibattito sul futuro della Ue e dell’Europa.
Lo scorso giugno, il commentatore economico capo del «Financial Times», Martin Wolf, ha scritto un articolo piuttosto «forte» che in Italia (ma anche a Bruxelles) è stato lasciato cadere, poco notato e discusso. Un peccato. Iniziava così: «L’euro è stato un fallimento». In sostanza, Wolf condivideva quanto aveva scritto, sempre in giugno, Andreas Kluth sul quotidiano tedesco «Handelsblatt»: «Si supponeva che una valuta comune avrebbe unito gli europei. Invece li divide sempre di più». Le due citazioni servono a dire che anche nel cuore degli establishment britannico e tedesco – forse i più rilevanti quando si tratta di analizzare le vicende economiche e politiche europee – la saggezza della scelta di creare l’euro inizia a essere messa in discussione. Nei motivi, nei modi e nei tempi con cui è stata realizzata.
Ashoka Mody, un docente che insegna all’università di Princeton, ha da poco pubblicato un libro che ripercorre la nascita dell’euro e sta facendo onde alte, Euro Tragedy (Oxford University Press, pagine 672, $ 34.95). Una delle convincenti ricostruzioni che ne emergono è che la moneta unica non fu affatto una decisione fondata su analisi economiche, sulla presunta necessità di una valuta comune per garantire il mercato unico. E ancora meno fu una macchinazione delle banche e della finanza, come alcuni sostengono. Fu pienamente una scelta politica. Perseguita per primi dai francesi già negli anni Settanta, che volevano agganciare il marco tedesco al loro franco (più debole). Sin dagli inizi, molti economisti avvertirono che senza un’unione fiscale, dei bilanci dei diversi Paesi membri, e quindi senza una conseguente unione politica, la nuova valuta non avrebbe funzionato. La Germania resistette a lungo all’idea. Cedette solo quando il cancelliere Helmut Kohl accettò ciò che il presidente francese François Mitterrand pretendeva: una moneta unica per legare il marco al franco e al resto delle valute europee in cambio della riunificazione tedesca seguita alla caduta del Muro di Berlino, riunificazione che spaventava un po’ tutti per la forza che la nuova Germania avrebbe avuto.
Nonostante le opposizioni della Bundesbank e di buona parte dell’establishment tedesco, Kohl procedette, ovviamente senza l’impossibile unione fiscale e politica. E di fatto impose, sempre per ragioni politiche, anche l’ingresso dell’Italia nell’euro sin dalla sua creazione, altro motivo di conflitto con l’ortodossia monetaria prevalente in Germania. L’euro fu insomma una creazione del tutto politica, fondata sull’idea che unificare le valute avrebbe fatto convergere le economie e diretto verso l’unione politica. Teoria che più o meno somiglia al credere di potere guidare un cane tenendolo per la coda. Le crisi finanziarie del 2008 e degli anni seguenti hanno messo a dura prova la costruzione voluta da Mitterrand e Kohl (rifiutata da Margaret Thatcher e dai successivi governi britannici). Con il risultato che le divisioni tra i Paesi membri sono aumentate invece di diminuire: tra Nord e Sud del continente, tra creditori e debitori, tra formiche e cicale, tra internazionalisti e nazionalisti. E naturalmente sono cresciute le divisioni tra chi era nell’euro e chi no: di fatto innescando un processo di divergenza politica che poi ha portato alla Brexit. Anche l’esperimento di straordinario successo del mercato unico, incompleto ancora oggi, non è stato aiutato dalla moneta comune: probabilmente le tensioni sollevate da quest’ultima lo hanno anzi relegato in secondo piano.
Dall’inizio degli anni Novanta, gran parte delle energie mentali e politiche dell’Europa sono dunque state dedicate all’euro, alla sua costruzione prima e a preservarlo dalla sua crisi poi. Questa è una delle ragioni, non l’unica, per le quali la Ue si concentra da anni su se stessa. L’Eurozona e per simpatia la Ue sono state vittime prima dalla hybris per la quale ritenevano di stare costruendo qualcosa di unico nella storia, poi dal quasi panico per i piedi d’argilla dell’intera costruzione, salvata dall’attivismo della Banca centrale europea e dall’unica possibilità che restava, a crisi scoppiata, cioè imporre la medicina della convergenza economica e finanziaria: a Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e anche Italia.
Nella battaglia per salvare l’euro c’è insomma stato un peccato di presunzione che ha sostenuto l’ideologia della Ue di oggi (a differenza di quella pragmatica delle origini): l’idea di essere non solo un esperimento unico nella storia, cosa che effettivamente è, ma di essere centrale nel mondo, un modello che avrebbe potuto essere replicato altrove. Fondato sulla tendenziale estinzione degli Stati senza sostituirli con altre legittimazioni democratiche; sull’idea che sia stata solo la volontà degli europei a garantire decenni di pace in un continente in passato violento, tesi che sottovaluta il ruolo dell’America e della Nato; sul ritenere i valori usciti dal Sessantotto l’essenza dello spirito europeo; sull’illusione di essere ancora il centro del pianeta quando la globalizzazione stava rovesciando i tavoli: in sostanza sulla presunzione di poter vivere contando solo sul proprio brillante soft power, sulla convinzione che il resto del mondo avrebbe copiato il modello europeo.
Il problema è che l’Europa non è più da tempo il centro del mondo. La lunga fase d’ordine mondiale ricalcato sul modello eurocentrico iniziata con la pace di Westfalia (1648), come ha ben spiegato Henry Kissinger, è arrivata alla fine, al momento sostituita da un disordine globale. La capacità di attrazione del modello europeo è sempre minore. Persino all’interno della Ue i Paesi ex socialisti dell’Est tendono a non riconoscersi in esso. In Europa c’è una divisione tra imitati e imitatori che è in crisi, ha scritto in luglio il politologo Ivan Krastev sulla rivista «Foreign Policy»: «La vita degli imitatori (i Paesi dell’Est, ndr) inevitabilmente mixa sentimenti di inadeguatezza, inferiorità, dipendenza, perdita d’identità e involontaria insincerità. Gli imitatori non sono mai persone felici. Non possiedono mai i loro successi, possiedono solo i loro fallimenti». E non funziona cercare di «comprarli» con i fondi di coesione di Bruxelles.
In un mondo nel quale evapora l’idea di essere un modello pacifico per gli altri, l’Europa si trova a dovere fare i conti con la competizione tra grandi potenze che sì usano il soft power (quando ce l’hanno), ma che oggi si confrontano tra loro con i muscoli dell’economia e delle sanzioni, spesso con la negazione della democrazia, con l’esaltazione del nazionalismo e soprattutto combattono per essere il cuore di un nuovo ordine internazionale nel quale la forza militare ha un grande ruolo. Di fronte a Donald Trump, a Vladimir Putin, a Xi Jinping, ma anche più in piccolo al turco Recep Tayyip Erdogan e all’iraniano Ali Khamenei, i leader europei, Angela Merkel, Emmanuel Macron e gli altri continuano a giocare le carte dell’attraente, grande mercato interno della Ue e del giusto rispetto delle regole internazionali. Ma appaiono deboli.
Non è obbligatorio essere superpotenze: si potrebbe ritenere meraviglioso che l’Europa diventasse una grande Svizzera, ricca e neutrale: per molti versi già lo è. Il guaio è che gli altri non sembrano essere d’accordo. Nel caos globale odierno, il Vecchio Continente rischia di essere il trofeo prezioso nella lotta tra un’America confusa e sempre più lontana dalla dimensione atlantica e una Cina che immagina una «sua» Eurasia, cuore dell’ordine mondiale futuro, nella quale l’Europa sarebbe la penisola occidentale di un super-continente dominato da Pechino. Wess Mitchell, assistente segretario di Stato per gli Affari europei ed euroasiatici nell’amministrazione Trump, sostiene che «l’Europa è incontestabilmente un posto di competizione geopolitica» e che questo dato di fatto «l’America lo deve prendere seriamente».
Anche l’Europa lo dovrà prendere molto sul serio. Se non vuole che i suoi errori, diventati debolezze, diventino anche assoggettamento a un nuovo mondo illiberale e pericoloso. Difendere l’euro non basta più.